“Nella nostra famiglia non ci sono adulti. Anche quelli che sono cresciuti sono rimasti bambini”. Comincia così la descrizione della fotografa polacca Michalina Kacperak nell’allestimento del suo progetto Soft spot per Phest, il festival internazionale di arte e fotografia che dal 2016 si svolge ogni anno a Monopoli, diretto da Giovanni Troilo e Arianna Rinaldo.

La premessa di Kacperak crea subito la cornice disfunzionale della storia che stiamo per scoprire. Però potremmo anche fare un test e senza leggere il resto della descrizione limitarci a guardare le sue foto, alcune stampate su grandi pannelli, circondate dai tanti colori della carta crespa sulle pareti, dai fili che scendono a ragnatela e da disegni infantili. Poi potremmo guardare con più attenzione le immagini, dove la fantasia sembra avere avuto la meglio sulle persone e sugli arredi, del tutto comuni, da cui sono circondate.

Partendo dalle foto in questo articolo, vediamo un uomo di mezza età che placidamente e passivamente si lascia ricoprire di piume, fili e mollette. Poi, c’è una bambina seduta alla scrivania, supponiamo della sua cameretta, indossa delle cuffie. Intorno a lei c’è un’esplosione di teli colorati, ma non sembra accorgersene. E ancora, una bambina (sarà la stessa di prima?) è rannicchiata in una posizione per niente comoda e sopra di sé ha una quantità tale di peluche da far venire voglia di lanciarli dall’altra parte della stanza.

Soft spot. (Michalina Kacperak, Per gentile concessione di Phest)

Il nostro test ci ha rivelato elementi scontati e altri più sottili. Ai primi appartengono i giocattoli, la confusione e i colori che affermano il ruolo predominante della fantasia infantile in questa storia; i secondi stanno nella tensione tra i soggetti e ciò che li circonda, e come li circonda. Qui si intravedono alcune stonature in questa dimensione giocosa, come l’indifferenza della bambina rispetto a ciò che succede nella sua camera e quel corpo incastrato tra i mobili e i pupazzi.

A questo punto è il momento di affidarsi anche a un racconto verbale per orientarsi in Soft spot, un titolo ambivalente che possiamo tradurre come punto morbido, ma anche come macchia e luogo morbidi. Kacperak è la prima di quattro sorelle, cresciute in una cittadina nel sud della Polonia. Il padre è stato un alcolizzato per molti anni – ora non lo è più – e, come ci ricorda lei stessa, l’alcolismo è una malattia che colpisce non solo chi ce l’ha ma anche tutta la sua famiglia. “Un genitore beveva, entrambi erano assenti. Abbiamo sofferto molto a livello emotivo. Una casa disfunzionale è un luogo pieno di contraddizioni”.

Tre anni fa la fotografa, nata nel 1993, si è lasciata guidare dalla fantasia della sorella più piccola, Sofia. Scattava ritratti di lei nella sua stanza, senza sapere dove stava andando, senza capire se quelle foto sarebbero diventate un vero progetto. Insieme hanno creato delle scene, amplificando gli spunti di Sofia. Dopo un anno anche le altre sorelle si sono unite spontaneamente e in seguito sono arrivati i genitori, anche se la madre ha avuto più difficoltà a lasciarsi andare, e di fatto è presente solo in una foto. Ha avuto inizio un “contagio” positivo, in cui tutti si sono messi a collaborare in questa specie di gioco, che ha avuto lo straordinario potere di riunire la famiglia e di aprire finalmente un canale di comunicazione.

Nel corso del progetto Kacperak si è resa conto che queste foto la stavano aiutando a tirare fuori una sofferenza che teneva dentro da troppo tempo. Il senso è diventato quello di creare un lavoro che non fosse cupo e triste, ma lasciasse spazio alla speranza, scoprendo anche di poter ritrovare dentro di sé quella bambina che non aveva avuto modo di essere.

Le mostre di Phest sono esposte a Monopoli in vari luoghi del centro storico fino al 3 novembre.

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