31 gennaio 2016 13:58

“Clemenza per chi confessa, severità con chi resiste”, recitava un principio fondamentale del sistema giudiziario in vigore in Cina fino al 1974, prima che il sistema stesso fosse sostituito dai tribunali del popolo. Un principio adottato di nuovo dal 2011 e che torna alla mente oggi davanti alle “confessioni” sempre più numerose trasmesse dalla Cctv, la tv di stato cinese: una serie ormai lunga di mea culpa recitata davanti alla telecamera da persone, che ben prima comparire in un’aula di tribunale e subire un regolare processo, ammettono pubblicamente i loro “crimini” e chiedono perdono.

È successo nei giorni scorsi con Gui Minhai, uno dei cinque librai di Hong Kong scomparsi in circostanze misteriose, e con Peter Dahlin, attivista per i diritti umani svedese che lavorava per una piccola ong di Pechino. Arrestato e detenuto per venti giorni con l’accusa di “finanziare attività criminali rischiose per la sicurezza nazionale”, Dahlin è stato espulso dal paese il 25 gennaio dopo essersi sottoposto all’umiliazione via etere: una versione moderna e d’impatto esponenzialmente maggiore dell’autocritica di epoca maoista, quando i presunti colpevoli di crimini contro il partito erano costretti a inginocchiarsi in pubblico con in testa un cappello da somaro decorato d’insulti e le mani bloccate dietro la schiena nella “posizione dell’aeroplano”.

La pratica è cominciata nel 2013, con la “confessione” televisiva di Peter Humphrey, un investigatore privato britannico che lavorava per conto di aziende internazionali, affamate di informazioni affidabili. Ripreso su milioni di teleschermi, Humphrey, vestito con la tuta arancione dei pregiudicati, ha ammesso di aver ottenuto illegalmente informazioni private su cittadini cinesi, e se n’è scusato. Alla videoammissione di colpa è seguito il processo, è stato condannato e poi scarcerato.

Le confessioni televisive rientrano pienamente nella logica del potere cinese

Sull’uso indiscriminato del mezzo televisivo di stato per mettere alla gogna persone che non solo non hanno ancora subìto un processo, ma non hanno nemmeno potuto incontrare un avvocato o addirittura non sono state formalmente accusate di nulla, è intervenuta nei giorni scorsi Reporter senza frontiere.

L’organizzazione ha lanciato un appello affinché siano revocati i visti di lavoro ai giornalisti di Cctv che lavorano all’estero.

Ma davvero c’è un’incongruenza tra questa nuova forma di autocritica e l’etica dei mezzi d’informazione statali? No, dato che questi si dichiarano “portavoce del Partito comunista”, come si può leggere sui loro siti web (ma solo nella versione in cinese). E nemmeno i riferimenti allo stato di diritto e alla Cina come “paese governato dalla legge”, che i leader e i rappresentanti di Pechino non mancano mai di ribadire nei consessi internazionali quando sono accusati di abuso dei diritti umani, stonano con le confessioni televisive.

Queste rientrano coerentemente nella logica del potere cinese, che non nasconde la sua vera natura: il partito è sempre stato al di sopra della costituzione (per questo un suo esponente, per poter essere giudicato in tribunale, deve prima essere espulso dal partito stesso). La confessioni televisive sono legittime perché è il partito a volerle, affinché il popolo sappia che le cospirazioni ai suoi danni (del Pcc e quindi del popolo) sono costanti, e che il partito è in grado di sventarle.

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