11 novembre 2022 12:11

Questo articolo è uscito il 9 settembre 2016 sul numero 1170 di Internazionale.

“Ho sprecato anni con X!”. Non ho mai sentito un uomo dire una cosa del genere. Ma quando lo fa una donna alla fine di una storia, tutti capiscono subito cosa intende dire. Ci convincono fin dalla nascita che il corpo femminile è una bomba a orologeria. Ogni rapporto che “non funziona” – cioè in cui la donna non rimane incinta di un uomo che si impegna ad aiutarla a crescere i figli – ci avvicina alla data di scadenza. Allo scoccare della mezzanotte, i nostri ovuli svaniscono.

In molti paesi e periodi della storia le donne hanno subìto pressioni per procreare. Ma l’idea dell’orologio biologico è un’invenzione recente. Se n’è cominciato a parlare negli anni settanta del novecento. “Per la donna in carriera le lancette dell’orologio corrono”, scriveva il Washington Post nell’apertura delle pagine cittadine il 16 marzo del 1978. L’autore dell’articolo, Richard Cohen, forse non immaginava quanto l’argomento sarebbe diventato ineludibile.

Il suo articolo si apriva con un pranzo in compagnia di una “donna composita”, che avrebbe dovuto rappresentare tutte le donne tra i 27 e i 35 anni. “Eccola che entra nel ristorante”, attaccava Cohen. “È carina. Capelli scuri. Altezza media. Ben vestita. Adesso si toglie il cappotto. Bel fisico”. La donna composita ha anche un atteggiamento positivo. “Il lavoro è meraviglioso. È felicissima”. Poi abbassa gli occhi.

“C’è qualcosa che non va?”, chiede
Cohen.

“Voglio avere un bambino”, risponde lei.

Cohen sosteneva che praticamente tutte le donne che conosceva volevano un bambino, indipendentemente dal tipo di rapporto sentimentale che avevano. “Sono andato in giro come un solerte reporter di donna in donna”, scriveva. “La maggior parte di loro mi ha detto che sente il ticchettio dell’orologio. A volte la Donna composita è sposata e a volte no. A volte, purtroppo, non c’è nessun uomo all’orizzonte. Quello che c’è sempre, però, è il ticchettio dell’orologio, lo senti dovunque tu vada”.

Nel giro di pochi mesi, tutte le donne in carriera cominciarono a sentirlo. Ann Kirch-heimer, una giornalista del Boston Globe, scrisse che “le beneficiarie del movimento femminista, la prima generazione di ragazze libere che hanno scelto la carriera, i viaggi e l’indipendenza invece che un marito, la casa e i bambini, oggi sta invecchiando, e improvvisamente le lancette dell’orologio biologico si sono messe a correre”. Una delle donne che Kirchheimer aveva intervistato, una psichiatra, aveva scherzosamente definito la malattia della quale lei e le sue amiche single soffrivano “la sindrome del ventre avvizzito”.

Da quel momento, gli statunitensi cominciarono a sentir parlare di fertilità in declino. Negli ultimi vent’anni il tasso di natalità era sceso in picchiata. Nel 1957 una donna statunitense aveva in media 3,5 figli; nel 1976 erano già diventati 1,5. Sulla scia del movimento femminista, dell’introduzione di nuove forme di contraccezione orale e intrauterina, e della legalizzazione dell’aborto, erano sempre di più le donne che rimandavano il matrimonio e la maternità per poter studiare e lavorare. Anche quelle che alla fine sarebbero diventate madri aspettavano più a lungo. Già nel 1977 il 36 per cento delle donne negli Stati Uniti aveva il primo figlio dopo i trent’anni. Ormai sembrava che molte di loro potessero rimandare la maternità a tempo indeterminato. Il mondo sarebbe finito così? Non a causa della bomba ma della pillola?

Nell’ondata di articoli sull’orologio biologico a volte si alludeva a tendenze demografiche più generali. Ma di solito l’attenzione era concentrata sulle singole donne. I mezzi d’informazione esaltavano le professioniste che decidevano di avere figli pur continuando ad avere una carriera impegnativa, e avvertivano quelle che rimandavano la maternità che poi se ne sarebbero pentite (raramente si accennava alla possibilità che una donna potesse non voler diventare madre).

Nel febbraio del 1982, l’attrice Jaclyn Smith, una delle star della serie tv Charlie’s angels, apparve sulla copertina della rivista Time. Indossava un abito azzurro molto ampio e poggiava le mani sul suo ventre arrotondato. “The new baby bloom” (un gioco di parole tra baby boom e bloom, fioritura), titolava il settimanale. “Le donne in carriera stanno scegliendo la maternità, e lo fanno con stile”, si leggeva all’interno. Il giornalista John Reed ripeteva un avvertimento che ormai stava diventando sempre più familiare: “Per molte donne il periodo della fertilità volge alla fine”. “L’antico richiamo della luna del pleistocene, del sale nel sangue e del codice genetico nascosto nei cromosomi sotto strati di cultura – e controcultura – stanno portando donne d’affari, professioniste di successo e perfino madri di figli ormai grandi a fermarsi e ripensarci”.

La metafora dell’orologio biologico suonava meno elaborata di quelle successive, ma indicava lo stesso determinismo. Reed evocava l’esistenza di un orologio biologico come prova del fatto che le donne non potevano allontanarsi troppo dai loro ruoli tradizionali. Definiva la loro vita in termini di maternità o fallimento nel diventare madri. Questi articoli lasciano intendere che, anche se adesso le donne potevano competere con gli uomini per ottenere posti di lavoro ben retribuiti e andare a letto con chi volevano fuori dal matrimonio, l’amore libero e il femminismo non avevano cambiato la loro natura fondamentale. Le donne potevano mettersi i pantaloni quanto volevano, ma alla fine il loro corpo reclamava un bambino. Poteva sembrare una semplice descrizione della realtà, in realtà era un ordine.

Quella dell’orologio biologico è una storia di scienza e sessismo. È il classico esempio di come certi stereotipi di genere possono determinare le priorità della ricerca scientifica e di come le scoperte scientifiche possono essere usate a scopi sessisti. Di fronte a metafore come quella dell’orologio biologico siamo abituati a pensare che non siano affatto metafore, ma descrizioni oggettive di fatti che riguardano il corpo umano. Tuttavia, se andiamo a vedere da dove ci è arrivata questa espressione, e come è stata usata, è chiaro che ha molto più a che fare con la cultura che con la natura. E il suo ruolo culturale era quello di contrastare gli effetti della liberazione femminile.

Prima di tutto, i discorsi sull’orologio biologico spingevano le donne alla maternità lasciando intendere che, anche se alcune differenze tra i sessi stavano scomparendo, quella sarebbe rimasta: le donne dovevano pianificare la loro vita amorosa per poter avere figli prima che fosse “troppo tardi”. In secondo luogo, la metafora sottintendeva che le donne impegnate a competere professionalmente con gli uomini e al tempo stesso a essere madri, sarebbero state svantaggiate, e che questo era un fatto naturale.

Alla base dell’espressione “orologio biologico” c’è l’idea che essere femmine sia una debolezza. In origine il termine era stato coniato dagli scienziati per descrivere i ritmi circadiani, i processi che dicono al nostro corpo quando dovrebbe dormire, svegliarsi e mangiare. Negli anni cinquanta, l’aviazione statunitense cominciò a sponsorizzare una ricerca su come funzionava l’orologio biologico. Ben presto i ricercatori facevano a gara per creare farmaci in grado di eliminare il bisogno di riposo. L’idea era che se avessimo capito bene come funzionava il nostro corpo, avremmo potuto superare tutti i suoi limiti. Negli anni settanta e ottanta, il termine assunse il significato odierno, circoscritto alla fertilità femminile. Ma siamo sicuri che essere femmine sia una limitazione che le donne in carriera vorrebbero superare?

In un periodo di grandi cambiamenti economici e sociali, il modo in cui si parlava dell’orologio biologico rafforzava i vecchi stereotipi sulle differenze di genere. Anzi, li ingigantiva dando la sensazione che gli uomini e le donne fossero ancora più diversi tra loro di quanto avessero immaginato i tradizionalisti degli anni cinquanta. Un numero sempre maggiore di donne irrompeva nel mondo del lavoro ben retribuito che un tempo era riservato agli uomini, ma i discorsi sull’orologio biologico continuavano a insinuare che quello della riproduzione era un problema solo femminile.

Giornalisti come Cohen e Kirchheimer avvertivano le loro lettrici che se avessero rimandato troppo la maternità sarebbero state sempre più prese dal panico. E, al tempo stesso, presentavano una serie di presunte “verità” immutabili sulla mascolinità che in realtà erano piuttosto nuove. Liberi dall’ossessione dello scorrere del tempo che condizionava la vita amorosa delle donne, gli uomini avevano sviluppato il desiderio di fare sesso senza coinvolgimento emotivo (più o meno nello stesso periodo, nelle università, la nuova psicologia evolutiva spiegava che i rituali umani di accoppiamento eterosessuale erano un compromesso tra il desiderio di sesso dei maschi e quello di protezione delle femmine, che per ottenerla dovevano essere fisicamente attraenti).

Anche se i sondaggi dimostravano che, ancora negli anni cinquanta, la maggior parte degli statunitensi considerava il matrimonio e la famiglia i fondamenti della felicità personale. Negli anni ottanta tutti gli esperti sostenevano che gli uomini e le donne erano destinati a vivere le relazioni con finalità opposte e privilegi diversi. Lo scapolo impenitente era senza età. Ma se una donna in carriera sperava di trovare un buon compagno, doveva pianificare la sua vita meticolosamente.

Statistiche fuorvianti

A metà degli anni ottanta, le donne del baby boom erano diventate un esercito di “schiave dell’orologio”, come le definì la giornalista Molly McKaughan. Nel suo bestseller del 1987 The biological clock scriveva che donne con mentalità e opinioni molto differenti erano tutte “consumate dal problema” di avere figli. Qualcuna esprimeva il rimorso di aver aspettato troppo per andare a caccia di un padre. Tuttavia, la maggior parte aveva capito subito che doveva scegliere con cura chi frequentare. “Se aspettano troppo”, rifletteva McKaughan, “il tempo passa senza che se ne accorgano”. Non esiste letteratura che dica la stessa cosa dei loro compagni.

Ancora oggi non sappiamo esattamente quanto diminuisca la fertilità femminile con il passare degli anni. Come fa notare la psicologa Jean Twenge, molte delle statistiche che di solito vengono citate a proposito della fertilità femminile sono fuorvianti. In un articolo del 2013 pubblicato sull’Atlantic, Twenge ha denunciato le esili basi di molti fatti che spesso vengono presentati alle donne come Vangelo. Dopo aver esaminato vari database di ricerche mediche, ha scoperto, per esempio, che la statistica spesso citata secondo la quale una donna tra i 35 e i 39 anni su tre non riesce a rimanere incinta anche dopo averci provato per un anno nasce da uno studio del 2004 basato sui registri delle nascite francesi dal 1670 al 1830. “In altre parole”, ha scritto Twenge, “a milioni di donne viene detto quando avere figli in base a una statistica che risale a prima che esistessero l’elettricità, gli antibiotici e la procreazione assistita”.

Un altro problema dei dati sulla fertilità è che, in generale, si basano sulle persone che sono andate da un medico perché non riuscivano ad avere figli. Di conseguenza, è difficile valutare quello che succede alla popolazione nel suo insieme. Quante coppie non concepiscono perché non vogliono? Quante usano sistemi contraccettivi? È quasi impossibile controllare tutte queste variabili.

Nonostante questi vuoti di conoscenza, abbiamo serie prove scientifiche del fatto che la quantità e la qualità degli ovuli di una donna diminuiscono con il tempo. Moltissime donne che per un motivo qualsiasi hanno rimandato la maternità scoprono con grande angoscia che non possono più concepire. In questo senso, le ansie delle schiave dell’orologio erano fondate. Ma gli studi sull’argomento si dimenticano quasi sempre di dire che anche la fertilità maschile diminuisce con l’età. Ovviamente esistono eccezioni famose, come Charlie Chaplin e Pablo Picasso, che ebbero figli dopo i settant’anni. Ma la convinzione diffusa che il tempo non agisca sulla fertilità maschile è profondamente sbagliata. Fin dagli anni ottanta, un gran numero di studi ha dimostrato che anche la quantità e la qualità degli spermatozoi diminuisce con il passare degli anni. Nei figli di padri anziani il rischio di autismo e di altre complicazioni è più alto che nei figli di padri più giovani. E spesso i “vecchi spermatozoi” si limitano ad agitarsi e a morire intorno all’ovulo che stanno cercando di fecondare.

Di questi dati si parla molto raramente, quasi sempre per dare la notizia che esiste anche un “orologio biologico maschile”. La necessità di aggiungere “maschile” ci fa capire perché questi dati in genere vengono ignorati: per la società è come se solo le donne avessero un corpo. Secondo l’American society of reproductive medicine, delle coppie statunitensi che si rivolgono a un medico per problemi di fertilità, il 40 per cento scopre che sono dovuti alla “componente femminile”, il 40 per cento alla “componente maschile” e per il 20 per cento non si riesce a scoprire il motivo. La percentuale d’infertilità è più o meno la stessa per gli uomini e per le donne, ma se leggessimo solo quello che i giornali pubblicano sull’argomento non lo sapremmo mai.

Diamo per scontato che a essere responsabili della riproduzione siano soprattutto le donne. E, di conseguenza, se qualcosa non funziona dev’essere colpa loro.

Il sistema riproduttivo femminile, in realtà, non è affatto un orologio. Il corpo delle donne segna i mesi piuttosto che i giorni o le ore; i cicli ormonali raramente procedono lisci come l’olio. E anche la fertilità maschile diminuisce con gli anni come quella femminile. Allora perché l’idea che le donne, e solo le donne, debbano correre contro il tempo ha avuto tanto successo? Perché questa teoria si è tanto diffusa?

Per rispondere a queste domande probabilmente non è necessario tirare in ballo le peculiarità del corpo femminile che risalgono al pleistocene. Nel periodo in cui si affermava l’idea dell’orologio biologico, i cambiamenti economici stavano modificando l’organizzazione del tempo e del lavoro. E il motivo per cui le donne hanno cominciato ad avere la sensazione di dover correre contro il tempo non aveva tanto a che fare con una misteriosa forza biologica, quanto con il fatto che stavano entrando nel mondo delle professioni, pur continuando a fare la maggior parte dei lavori domestici non retribuiti. In altre parole, erano molto più occupate, e avevano letteralmente meno tempo di prima.

L’orario di lavoro dalle nove alle cinque tanto comune nel ventesimo secolo creava due tipi di tempo: quello in servizio e quello fuori servizio. Negli anni cinquanta e sessanta il primo tipo era riservato essenzialmente agli uomini. Le donne lavoravano in casa, uno spazio che per la società non aveva un valore economico. Quello che facevano non era lavoro, era una forma di amore.

Il “salario familiare” che guadagnava l’uomo era considerato sufficiente anche a pagare le fatiche non retribuite della moglie. Ma, a causa della stagnazione dei salari, negli anni settanta sempre meno famiglie potevano permettersi di avere un solo stipendio. E lo smantellamento dei servizi sociali le metteva ulteriormente in difficoltà. Le femministe bianche istruite inneggiavano alle nuove opportunità che avevano le donne di entrare a far parte della forza lavoro. Ma l’esodo delle casalinghe dai quartieri residenziali era dovuto alle necessità economiche, oltre che al desiderio di liberazione.

Nei posti di lavoro nessuno cambiò le regole per favorire le donne che, di conseguenza, se volevano fare carriera e avere una famiglia come i loro colleghi maschi, dovevano cercare costantemente di stare al passo. Dovevano trovare il modo di conciliare le esigenze molto diverse della vita familiare e di quella aziendale, e correre contro il tempo. Tic, tac. Tic, tac.

Nel 1989 la sociologa Arlie Hochschild coniò una nuova espressione per definire il fenomeno delle donne che lavoravano fuori casa continuando a fare anche la maggior parte dei lavori domestici. Lo chiamò “il secondo turno”. Una decina di anni dopo, osservò che molte donne avevano anche un “terzo turno”, che consisteva nel tenere a bada le intense emozioni provocate dal primo e dal secondo: i sensi di colpa e il risentimento che cominciavano a provare quando si rendevano conto che per “avere tutto” spesso dovevano “fare tutto”.

Le interminabili discussioni sull’orologio biologico contribuirono a far sembrare la difficoltà di conciliare vita familiare e lavoro una patologia che affliggeva le singole donne, piuttosto che un problema che riguardava tutta la società (ricordate la psichiatra che parlava di “sindrome del ventre avvizzito”?). Questo nascondeva il fatto che il vero problema erano le priorità sociali. Un paese come gli Stati Uniti, dove il congedo per maternità e l’assistenza all’infanzia quasi non esistono, per le donne che decidono di essere madri è quasi impossibile partecipare all’economia in modo paritario. La psicosi dell’orologio biologico, e la sua immagine di una bomba a orologeria piazzata nelle ovaie di tutte le donne, rendeva ognuna di loro personalmente responsabile di superare quell’handicap.

Molte donne in carriera ci sono cascate. Invece di organizzarsi per chiedere un congedo di maternità più lungo e assistenza all’infanzia a carico dello stato, hanno creduto agli esperti che dicevano quello che dicono sempre alle donne: c’è qualcosa che non va in voi, ma per fortuna c’è anche qualcosa di nuovo e costoso che potete comprare per risolvere il problema.

Soluzione in vitro

I medici avevano perfezionato la tecnica della fecondazione in vitro (Fivet) pochi mesi prima che i giornalisti cominciassero a parlare dell’orologio biologico. Il 25 luglio del 1978, all’ospedale di Oldham, nel Regno Unito, nacque la prima “bambina in provetta”, Louise Brown. La piccola Louise diventò subito una celebrità. Ma se un’agenzia pubblicitaria avesse lanciato una campagna per vendere la fecondazione assistita a un più ampio numero di donne, non avrebbe potuto fare meglio dell’articolo di Richard Cohen sull’orologio biologico.

La fecondazione in vitro era stata studiata per risolvere un problema specifico. La madre di Louise Brown non era in grado di concepire a causa di un’ostruzione delle tube di Falloppio. Ma nel 1981 i ricercatori trovarono il sistema per stimolare le ovaie di qualsiasi donna con gli ormoni, facendo in modo che producessero più ovuli contemporaneamente. Invece di contare sul ciclo mestruale naturale, i ginecologi cominciarono a estrarre dalle pazienti tutto il materiale genetico che potevano. E ben presto cominciarono a vendere la fecondazione assistita anche alle donne che non avevano alcun problema alle tube.

Nel 1983 Sevgi Aral e Willard Cates, due medici del centro per la prevenzione e il controllo delle malattie di Washington, annunciarono l’inizio di una “epidemia di infertilità” in un articolo che sarebbe stato molto letto e citato. Con il diffondersi della preoccupazione per questa epidemia, l’industria della tecnologia riproduttiva assistita crebbe in risposta alla nuova domanda. A metà degli anni ottanta in tutti gli Stati Uniti stavano già aprendo cliniche che offrivano la fecondazione in vitro. Negli anni novanta seguirono le agenzie che offrivano la donazione di ovuli, la gestazione surrogata e l’Icsi (iniezione introcitoplasmatica di spermatozoi).

Anche se ha aiutato molte donne a concepire, la fecondazione assistita non è un procedimento facile. Ed è piuttosto costoso. Nel 2015 negli Stati Uniti un ciclo di Fivet “a fresco” (cioè con ovuli appena raccolti) costava in media 12.400 dollari, più 3.500 di farmaci. Per cercare di concepire, molte pazienti si sottopongono a più di un ciclo, e le assicurazioni sanitarie che coprono tutte le spese sono pochissime. Nel Regno Unito il prezzo medio va dalle quattromila alle ottomila sterline a ciclo, e non tutte le donne possono farlo a spese del servizio sanitario nazionale. La Fivet è anche una procedura invasiva che comporta notevoli rischi fisici ed emotivi. Esistono innumerevoli studi che descrivono nei minimi particolari i suoi effetti debilitanti su molte donne.

Sono state condotte anche ricerche su come gli ormoni usati per la Fivet influiscono sul corpo delle donne nel lungo periodo. A ottobre del 2015 i ricercatori dell’University college London hanno pubblicato uno studio basato su più di 255mila donne britanniche che si erano sottoposte al trattamento tra il 1991 e il 2010, e hanno scoperto che avevano il 37 per cento di probabilità in più di sviluppare un tumore alle ovaie rispetto al gruppo di controllo. È impossibile sapere se a provocare il cancro sia stata la Fivet o se i loro problemi di infertilità fossero dovuti a una malattia non diagnosticata. In nessuno dei due casi c’è da stare troppo tranquilli.

Eppure la nostra cultura dà talmente per scontato che le donne sono disposte a soffrire pur di avere un figlio, e queste procedure sono così redditizie, che si investe ben poco per trovare alternative. Anche se una coppia ha difficoltà a concepire a causa della “componente maschile”, è sempre quella femminile che deve sottoporsi alla Fivet.

Le tecnologie riproduttive sono spesso definite un mezzo per aggirare i limiti della biologia, ma c’è il grosso rischio che dopo aver speso e sofferto tanto, la Fivet non funzioni. L’ultimo rapporto dell’American society of reproductive medicine, pubblicato nel 2012, dimostra che le percentuali di successo di qualsiasi tipo di fecondazione assistita sono piuttosto basse. Per le donne che hanno superato i 42 anni, la probabilità che con un ciclo di Fivet arrivino a portare a termine una gravidanza è del 3,9 per cento. Se una donna conta di poter mettere su famiglia con questo metodo, scoprire che non è possibile può essere devastante. L’idea che esistono tecnologie miracolose le dà ancora di più la sensazione che la colpa sia unicamente sua.

Beni congelati

Come tutte le industrie, anche quella della procreazione assistita cerca di espandersi e di conquistare nuovi mercati. Gli studi dimostrano che dall’inizio del nuovo millennio le donne hanno cominciato a preoccuparsi sempre più presto della loro fertilità. Nel 2002 dalla National survey of family growth dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie è emerso che negli Stati Uniti il numero di donne tra i 22 e i 29 anni che avevano fatto ricorso a una qualche terapia per l’infertilità era raddoppiato rispetto a sette anni prima. Nel 2006 Conceive, una rivista di Orlando, in Florida, il cui slogan è “Siamo gli esperti del concepimento”, ha scoperto che il 46 per cento delle sue lettrici aveva meno di trent’anni.

Negli ultimi dieci anni l’industria ha cominciato a vendere costosi interventi a sempre più persone che forse non ne hanno alcun bisogno. Il congelamento degli ovociti, in particolare, viene venduto alle donne in carriera come un modo per essere previdenti. Nel 2014 la Fertility Authority, un’azienda statunitense, ha lanciato una startup chiamata Eggbanxx, che offre l’accesso a una rete di medici che eseguono le procedure di congelamento degli ovuli e mira al mercato delle donne che non hanno ancora problemi di fertilità. “Saremo la Uber del congelamento degli ovuli”, ha dichiarato al Washington Post nella primavera del 2015 l’amministratrice delegata Gina Bartasi.

La metafora dominante nei discorsi sul congelamento degli ovuli è quella dell’assicurazione. Nelle loro pubblicità, le cliniche che offrono il trattamento spesso usano il linguaggio dell’alta finanza. Parlano scherzosamente di “beni congelati” e più seriamente di “protezione” dai rischi. Congelare gli ovuli non è una scelta, ma “un’opzione”, nel senso in cui questo termine viene usato a Wall street. Quando congela i suoi ovuli, una donna paga una certa somma – negli Stati Uniti si parte da 15mila dollari più il costo annuale della conservazione – per poterli riavere più tardi.

Come la Fivet, all’inizio il congelamento è stato concepito per uno scopo specifico: le giovani malate di cancro che dovevano sottoporsi alla chemioterapia potevano decidere di congelare i loro ovuli prima di cominciarla. Ma negli ultimi anni le cliniche hanno cominciato a offrire il trattamento sperimentale anche alle donne sane. Anzi, le incoraggiano a farlo il prima possibile. Chiedere alle donne di affrontare il costo di un intervento facoltativo, che è ancora classificato come sperimentale, anni prima di averne bisogno, non sembra la più solida delle proposte commerciali. Eppure la logica del congelamento degli ovuli ha convinto alcune delle aziende americane di maggior successo. Negli Stati Uniti, quando Google, Facebook e Citibank hanno annunciato che stavano prendendo in considerazione la possibilità di coprire fino a 20mila dollari di spesa per il congelamento degli ovuli delle loro dipendenti come benefit sanitario, molti l’hanno liquidato come un modo per compensare la disuguaglianza salariale che ancora persiste in molti posti di lavoro. L’articolo di copertina di Time su questo tema aveva come titolo: “Il congelamento degli ovuli sarà il grande equilibratore”.

Quando vengono intervistate, le donne che congelano i loro ovuli tendono a dire che questo le fa sentire “più autonome”. Ma spesso sembrano più preoccupate perché non riescono a trovare l’amore mentre sentono aumentare il ticchettio del loro orologio biologico che per la carriera.

L’orologio biologico è servito a far sembrare inevitabile che il peso della riproduzione ricadesse quasi esclusivamente sulle donne

Nel 2011 Vogue ha pubblicato un articolo su una “esile dirigente di 35 anni di una società di comunicazione” che aveva appena congelato i suoi ovuli. La donna sottolineava i vantaggi che questo avrebbe comportato nelle sue relazioni con gli uomini. “Leah sapeva di essere pericolosamente vicina all’età in cui gli uomini ti guardano negli occhi per cercare la disperazione di chi sente ticchettare l’orologio biologico. ‘Aver congelato gli ovuli è il mio piccolo segreto’, dice. ‘Voglio essere sicura di avere un piano di riserva’”.

Nel 2013 la giornalista Sarah Elizabeth Richards ha pubblicato Motherhood rescheduled, un libro in cui segue cinque donne attraverso il processo di congelamento degli ovuli. La stessa autrice dice di essere felicissima di averlo fatto perché adesso le sue storie d’amore sono molto più rilassate. “Congelare gli ovuli ha placato il rimpianto di aver sprecato i miei vent’anni accanto a un uomo con il quale non volevo avere figli, e di aver gettato via altri anni dopo i trenta con un uomo che non ero sicura li volesse. Ho smesso di sentirmi costretta a trovare al più presto un compagno e ho trovato di nuovo l’amore a 42 anni”. Questo fa sembrare il congelamento degli ovuli non tanto un sistema per garantire una maggiore uguaglianza sul posto di lavoro quanto un mezzo costoso per prolungare la ricerca del principe azzurro.

Il peso della responsabilità

Le donne sicure di sé che vengono citate per fare pubblicità al congelamento degli ovociti spesso sostengono che si tratta di una scelta. Ma la verità è che in questo modo accettano le aspettative della società sull’amore romantico e la riproduzione. Più questa pratica si diffonde, più si rafforza l’idea che le donne devono assumersi il compito e l’onere economico della riproduzione. È facile immaginare che le opportunità diventeranno obblighi: in una società che offre il congelamento degli ovociti alle sue dipendenti, una donna che lo rifiuta verrà percepita come meno decisa a fare carriera. Spendere decine di migliaia di dollari per far stare più tranquillo un compagno, o per fare carriera in un’azienda che non si sforza minimamente di andare incontro alle esigenze delle sue dipendenti quando sono in età riproduttiva, è uno strano modo per sentirsi più autonome.

Ormai più della metà della forza lavoro statunitense è costituita da donne. Nel Regno Unito più del 67 per cento delle donne lavora a tempo pieno fuori casa. Se dovessimo scegliere tra politiche di sostegno alla maternità – per esempio congedi per maternità e assistenza all’infanzia – e una tecnologia che “ferma il tempo”, siamo sicuri che fermare il tempo sia il sistema più pratico per risolvere i problemi che le donne devono affrontare a causa delle convenzioni che imperano nei luoghi di lavoro?

È facile capire perché alcune donne vogliano congelare i loro ovuli, ma questo raramente risolve il problema. Anzi, ne prolunga l’esistenza. L’orologio biologico è servito a far sembrare naturale, anzi inevitabile, che il peso della riproduzione ricadesse quasi esclusivamente sulle donne. Il concetto stesso ha una serie di implicazioni morali, oltre che pratiche. In sintesi: se una donna non programma bene la sua vita, merita di finire sola e disperata.

L’idea che sia nella natura delle donne assumersi tutta la responsabilità della procreazione mette un peso insopportabile sulle loro spalle. E influisce negativamente sui loro rapporti con gli uomini. La teoria secondo la quale gli uomini e le donne che desiderano avere rapporti sentimentali e sessuali tra loro abbiano necessariamente finalità opposte non serve a nessuno. Non sarebbe meglio riconoscere semplicemente che sia il corpo degli uomini sia quello delle donne invecchiano, e che la maggior parte degli esseri umani desidera affetto, intimità e rispetto?

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito il 9 settembre 2016 sul numero 1170 di Internazionale.

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