24 maggio 2012 00:00

Mentre il mio interlocutore raccontava la sua storia, un pensiero sgradevole si è fatto strada nella mia mente. Stavo approfittando dell’innocenza di questo ragazzo, del suo disperato bisogno di parlare con qualcuno che non lo consideri malato? D è gay. Qualcosa che nella società palestinese non può essere confessato.

D ha incontrato G, il suo amico israeliano, su internet. G lo va a trovare regolarmente, ma D non può ricambiare le visite. I due avevano un sogno: trascorrere alcuni giorni insieme in Israele. Così D ha ottenuto un permesso per entrare in Israele ed effettuare alcune analisi in un’ospedale di Gerusalemme Est. G lo aspettava oltre il checkpoint. I due hanno camminato insieme verso la porta di Jaffa, inebriati dalla sensazione di libertà e dal piacere di stare insieme senza nascondersi. Davanti alla porta di Jaffa alcuni poliziotti israeliani hanno fermato i due ragazzi. Il nervosismo di G li ha insospettiti. Hanno controllato il permesso di D, che non li ha soddisfatti. Doveva andare in ospedale, e quella non era la direzione giusta. D è finito in una stazione di polizia. Lì, ingenuamente, ha detto la verità. A quel punto gli hanno fissato un appuntamento con un agente dei servizi segreti.

Il ricatto ai gay palestinesi è una pratica comune, da parte sia dei servizi israeliani sia di quelli palestinesi. Sono facili prede, perché se scoperti rischiano di essere puniti o uccisi. È stato un attivista gay israeliano a contattarmi, perché la pubblicità è il migliore strumento di protezione.

*Traduzione di Andrea Sparacino.

Internazionale, numero 950, 25 maggio 2012*

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