06 giugno 2023 18:09

Di che colore è il genio? Da sempre associo gli album di Miles Davis a dei colori. Il suo disco più noto, Kind of blue, per me è di un blu notte scurissimo, quasi nero; mentre Bitches brew è un amalgama liquido di verde e turchese, con infinite pagliuzze dorate. Ci sono le terre e le ocre di Sketches of Spain, il grigio asfalto con infiniti segni di gessetto colorato di On the corner; Quiet nights è di un azzurrino tremolante, come l’effetto notte del cinema, e In a silent way è argenteo, pieno di riflessi lunari e di barbagli.

Maniacale ascoltatore di Miles Davis, il compositore danese Palle Mikkelborg a metà degli anni ottanta ha provato a immaginare i colori dell’aura del grande musicista. Ha cercato di indovinare di che colore fosse la sua arte nella sua totalità. L’aura che cerca di descrivere non ha niente di esoterico, ma nasce dall’ascolto e dall’interpretazione attenta della sua enorme produzione musicale che spazia dalla fine degli anni quaranta ai primi anni novanta del novecento.

Aura, una suite orchestrale formata da un’introduzione e nove movimenti corrispondenti ciascuno a un colore, viene composta da Mikkelborg in onore di Miles Davis in occasione della consegna del Sonning award nel 1985. Il premio Sonning è la massima onorificenza che la Danimarca può riservare a un compositore: lo vinsero Igor Stravinskij, Benjamin Britten, Dmitrij Šostakovič, Olivier Messiaen e, nel 1985, anche Miles Davis.: il primo musicista jazz e, ancora a oggi, l’unico nero.

Quando Davis sentì l’omaggio del compositore danese lo apprezzò e si offrì di dare il suo contributo a una registrazione in studio aggiungendo alla parte orchestrale la sua tromba solista. “Devi avermi seguito con molta attenzione”, disse Davis a Mikkelborg quando lo incontrò per la prima volta a Copenaghen. Per lui, come scrive Mikkelborg nelle note che accompagnano l’album, Miles era un maestro spirituale, una guida zen.

Tra il 31 gennaio e il 4 febbraio del 1985, Mikkelborg, Miles Davis, la Danish radio big band e una serie di solisti (tra cui il chitarrista fusion John McLaughlin) registrano Aura all’Easy Sound studio di Copenaghen. L’intesa con i musicisti è straordinaria: è come se il compositore danese avesse abbozzato un grande ritratto di Miles Davis a cui lui, con la sua tromba, aggiungeva gli ultimi ritocchi. O meglio, i suoi assoli sono dei piccoli autoritratti, delle miniature squisite dentro un quadro più grande. E la musica è inafferrabile, in precario equilibrio tra classica contemporanea, fusion, jazz e qualche tocco di funk, in un tentativo titanico di riprodurre la tavolozza dell’intera, sconfinata carriera di Davis.

La suite si apre con un’introduzione: un tema di dieci note suonato dalla chitarra di McLaughlin. Dieci note estrapolate dalla sequenza di lettere M-I-L-E-S-D-A-V-I-S, come nel crittogramma musicale noto come tema BACH. Dei synth sostengono l’accordo con un lungo crescendo che si spezza quando entrano basso e percussioni ad accelerare il tempo. “Era un accordo difficile”, ha ricordato Miles Davis, “dovevi suonarci contro, non insieme”. Il musicista Phil Freeman in un suo intervento nel blog collettivo Burning Ambulance nota che il tema dell’introduzione non è particolarmente bello e “si risolve in modo poco attraente e un po’ sconclusionato”. È un’introduzione, spiega, che richiede che dopo ci sia altra musica che in qualche modo ne riempia i vuoti e ne ricomponga le fratture. Mikkelborg dunque ha scritto, forse inconsciamente, una musica che richiedeva l’intervento del suo ispiratore per concludersi. Freeman non apprezza i suoni troppo anni ottanta dell’orchestra (che, per esempio, usa i sintetizzatori all posto degli archi), ma riconosce la genialità di alcuni singoli momenti di musica.

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Le nove sezioni della suite scorrono una dopo l’altra, aprendo uno spettro di colori che in qualche modo segue l’evoluzione della musica di Miles Davis: si va dal caldo (White, Yellow, Orange e Red), via via verso il freddo (Green, Blue, Indigo e Violet): Mikkelborg sa che Davis ha cambiato il corso della storia della musica per almeno due volte nel corso della sua vita e in questa suite-omaggio cerca di creare una saldatura, una fusione, tra l’età dell’oro orchestrale con Gil Evans e la fase elettrica, funk e fusion del dopo Bitches brew.

Non è casuale che Miles Davis si sia avvicinato con tanto entusiasmo al progetto di Aura: da una parte c’era la vanità di vedersi dedicare, in vita, un omaggio così importante e sentito. Dall’altra c’era un genuino interesse che Davis, in vecchiaia, stava sviluppando per il tema dei colori e degli aspetti visivi della musica. Proprio nel 1985, debole e malato (era diabetico e molto provato da decenni di abusi di sostanze) si avvicinò alla pittura grazie soprattutto agli insegnamenti della sua ultima moglie Jo Gelbard, che lui conobbe a New York nell’ascensore di casa sua. Lei una giovane donna ricca e fresca di divorzio, lui un mostro sacro del jazz ma debole e appeso a due stampelle dopo un’operazione alle anche. Gelbard lo introdusse alla pittura un po’ come alla fine degli anni sessanta la sua seconda moglie, Betty Mabry, lo aprì al funk e al rock.

Nella ben nota e ben documentata misoginia di Miles Davis c’era anche un aspetto di ammirazione-invidia per la creatività e per il carisma delle donne che gli sono state vicine. In quel periodo, come spiega Michael Stradford nel suo libro Miles style, the fashion of Miles Davis, cambiava anche il suo stile. Negli anni ottanta, con la ripresa della sua carriera musicale dopo il periodo buio della tossicodipendenza, cominciava a indossare colori sempre più sgargianti e abiti confezionati appositamente per lui dal designer giapponese sperimentale Koshin Satoh. Pantaloni ampi, enormi spalline e in testa fasce e cappelli, se non addirittura parrucche ed extension per nascondere una calvizie che trovava particolarmente umiliante. “Non ascoltava mai quello che gli dicevo”, ricorda Satoh in un’intervista contenuta nel libro. “Io creavo per lui dei completi che lui si ostinava a spezzare”.

In vecchiaia dunque Miles Davis disegnava, dipingeva, impiastricciava di colore i suoi nuovi abiti costosissimi e, un po’ come Picasso dopo il periodo blu, riscopriva i colori caldi: i rossi, i gialli, l’oro e il viola. È naturale che un progetto musicale ambizioso come Aura, per di più nato come omaggio alla sua intera carriera, dovesse piacergli molto. Nella sua autobiografia (edita in Italia da Minimum fax) Miles Davis scriveva: “La pittura mi aiuta con la mia musica. Sto ancora aspettando che la Columbia pubblichi un disco che ho fatto in Danimarca sulle composizioni di Palle Mikkelborg, Aura. Penso che sia un capolavoro, lo penso davvero”.

Tra le ragioni della rottura di Miles Davis con la sua storica etichetta – la Columbia nel frattempo assorbita dalla Sony – c’era anche la pubblicazione di Aura, che veniva continuamente rimandata. L’etichetta non credeva nel progetto e voleva che Davis si concentrasse sulla produzione di musica meno ibrida e più riconoscibile come jazz. Il disco sarebbe finalmente uscito nel 1989 e sarebbe stato il suo ultimo album in studio pubblicato in vita, un meraviglioso monumento a tutti i colori del suo ego. Miles Davis sarebbe morto due anni dopo, nel 1991.

Miles Davis
Aura
Columbia-Sony, 1989

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