09 settembre 2016 17:36

Secondo Frederic Jameson, intellettuale statunitense di scuola marxista, il giorno in cui venne assassinato John Fitzgerald Kennedy ha segnato l’inizio dell’era postmoderna, l’era dell’uomo destrutturato. Il regista sudamericano Pablo Larraín in Jackie (presentato in concorso) racconta proprio le ore immediatamente successive a quel giorno, presentandole dal punto di vista della first lady, Jackie Kennedy.

Il regista cileno però manca il bersaglio: Natalie Portman è brava, ma non sorprende per intensità. Il film non rappresenta in pieno la grandiosità del dramma e delle scelte che Jacqueline Kennedy si trovò a fare, praticamente da sola, quasi contro tutti. Gli altri membri della famiglia erano storditi e confusi, non così lucidi sulla visione che ebbe il mondo di quel presidente, di come fu percepito in Europa, Africa, Asia e America Latina.

Molti presidenti dell’America Latina, è interessante sottolinearlo visto che Larraín è cileno, dovettero giustificarsi di fronte all’opinione pubblica per la loro assenza ai funerali di stato, spiegando che glielo impediva la costituzione. Ma è proprio la discrepanza tra la percezione che la first lady aveva del presidente, che illuminò il mondo di idealità nel suo discorso inaugurale, e la contemporanea assenza del punto di vista dell’opinione pubblica a rendere monco il film.

Il mito di Camelot
Viene il dubbio che forse il film di Larraín sia volutamente perfido: rappresenta la determinazione della first lady nel volere dei funerali di grande livello – come quelli di Lincoln – perché Jackie era conscia del fatto che quella presidenza, durata tre anni scarsi, sarebbe rimasta monca. Dando a Jfk dei funerali imponenti, avrebbe trasmesso i suoi ideali anche alle generazioni future.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Di James A. Garfield e William McKinley, che ebbero presidenze brevi e che dopo l’assassinio non ebbero grandi funerali, come detto nel film, se ne ricordano solo gli storici e i giornalisti specializzati. Sorge allora una domanda: Larraín riconosce la dedizione, la vera osmosi di Jackie con gli ideali del marito presidente, oppure ne riconosce più che altro la costruzione di un mito da favola, il mito di Camelot, continuamente citato nel film?

Jfk inoltre è sostanzialmente ridotto a un anticomunista. Larraín è ambiguo. Eppure questa visione poteva essere espressa con alcuni flash storici, a partire dal giorno dell’assassinio. Ecco il primo: mentre Kennedy è a Dallas, Fidel Castro si trova a colloquio con il grande giornalista francese Jean Daniel. È dall’inizio dell’anno che il presidente statunitense invia messaggeri informali cercando di accordarsi con Castro, togliere progressivamente l’embargo e far diventare Cuba una sorta di Jugoslavia dei Caraibi.

Il secondo: Jackie, a cui Lyndon B. Johnson concede pochissimo tempo per lasciare la Casa Bianca, trova il tempo di scrivere una lettera personale a Nikita Kruscev con l’intestazione della Casa Bianca, ricordandogli che sia lui sia il marito presidente volevano sinceramente una pace stabile per l’umanità (ricollegandosi all’intervento all’American University del giugno 1963, che Kruscev definì come il più importante discorso di un presidente americano dai tempi di Roosevelt) e non soltanto accordi per far diminuire il rischio nucleare.

Cosa è mancato
Pablo Larraín avrebbe dovuto fare un altro genere di film, un affresco storico molto più lungo, con la parte intimistica di Jackie nei giorni dopo l’assassinio a far da perno al tutto. Il regista cileno, al contrario, è autore di opere che più o meno sono sempre dei film ripiegati su sé stessi. Dei microcosmi, dei concentrati di micro materia storica.

Partendo per Dallas, riportano le fonti storiche, Kennedy disse alla moglie: “Ora si va nella città dei pazzi!” e la notte prima disse: “Sarebbe un bella notte per morire”. Ma quest’ultima frase nel film non c’è. Eppure è riportata nel libro Morte di un presidente, scritto dal giornalista William Manchester, che uscì a poca distanza dalla tragedia per volontà di Jackie e ha ricostruito minuziosamente il periodo precedente all’assassinio fino agli spari nel Dealey plaza (e contiene tra l’altro alcuni elementi interessanti per chi non crede alla versione ufficiale sull’attentato).

Il libro restituisce in parte il rapporto fatalista con la morte che aveva Kennedy, che fece di tutto per andare in guerra e non crescere come un bamboccio di famiglia ricca, mentre il padre si dava molto da fare perché questo non avvenisse; oppure come quando era arruolato nella marina, come ben ricostruito dallo storico britannico Nigel Hamilton, e rimase profondamente sconvolto dai presagi di morte dei suoi sottoposti, perché si rivelavano praticamente sempre giusti; oppure come quando, dopo l’affondamento dello scafo di cui era comandante, salvò uno per uno i suoi marinai portandoli a riva e procurandosi danni irreparabili alla salute.

Senza dimenticare l’abbattimento mortale dell’aereo pilotato dal fratello maggiore Joe Kennedy Jr., tutto questo spiega perché Kennedy, figlio di un’epoca esistenzialista che aveva ancora il senso della gravità delle cose, moderna e non ancora postmoderna, fece imparare a memoria a Jackie, durante il viaggio di nozze, la poesia di Alan Seeger Ho un appuntamento con la morte.

Il film diventa una telenovela di qualità sul fatto che anche i ricchi piangono e soffrono come noi. Un altro modo di tradire i Kennedy

Si vede benissimo nel film che Jackie, al di là delle sue manie capricciose, avesse respirato tutto questo: non solo i singoli dossier, non solo le due visioni (quella del marito e quella dell’opinione pubblica mondiale) ma soprattutto la gravità delle cose e tra queste la morte: fu lei, poco tempo dopo, a volere che si facesse il lungometraggio sulla vicenda di Jfk nella marina militare durante il secondo conflitto, film a cui l’allora candidato alla presidenza aveva opposto il suo rifiuto mentre il padre premeva in quel senso, convinto che avrebbe giovato alla campagna elettorale del figlio. Restituire allo spettatore tutto questo avrebbe amplificato il dialogo con il prete a cui lei chiede conforto, interrogandolo su dove sia Dio e su chi egli sia.

Natalie Portman la salvatrice
Tutto questo nel film non c’è. Il film diventa allora una telenovela di qualità sul fatto che anche i ricchi piangono e soffrono come noi. Un altro modo di tradire i Kennedy, che non piangono mai in pubblico: non soltanto perché non sta bene esibire certi dolori in pubblico ma perché, come spiegò una volta Ted Kennedy, se dio è giusto, anche i ricchi e i potenti devono soffrire, non soltanto gli umili.

Certo, la Portman salva il film da un certo ridicolo, contrariamente agli altri attori: Lyndon B. Johnson, interpretato da John Carroll Lynch, ha l’aria di un pugile a cui è stato imposto l’abbigliamento da signore dell’alta società. Robert Kennedy, qui più alto del fratello maggiore mentre era decisamente vero il contrario, pare un’ameba o una talpa inespressiva mentre il vero Bob tanto era machiavellico nel calcolo politico quanto nel suo volto, nei suoi occhi e nella sua voce si rifletteva vistosamente una ipersensibilità: “lui è come noi: parla poco ed esprime tutto con il volto” disse un vecchio indiano di una riserva durante le primarie presidenziali del 1968, spiegando perché adorasse Robert Kennedy rispetto agli altri politici democratici.

Ci resta allora un’icona pop che Pablo Larraín e Natalie Portman riescono abbastanza bene a umanizzare, lavorando non tanto sulla reale somiglianza (la Jackie reale nelle foto e nei filmati spesso sembra avere un volto di gomma), ma piuttosto su un volto che ne rivela l’interiorità, un po’ come era Bobby, quello vero.

Nelle opere di Pablo Larraín, la pop art e il discorso sull’immagine in generale è importante, fondante nell’ottimo No – I giorni dell’arcobaleno, ma qui invece va in conflitto con l’umano, la modernità, con quel senso della gravità che Jacqueline Kennedy, in quel terribile frangente, seppe invece mantenere contro tutto e tutti e che potremmo riassumere con una parola: dignità. La dignità d’altri tempi, di un’altra epoca.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it