Arriva in sala uno dei film più belli, originali e soprattutto magici di quest’anno. Film d’esordio nel cinema di finzione della regista indiana Payal Kapadia, che lo ha scritto e diretto. Grande sorpresa del Concorso di Cannes di quest’anno, è arrivato negli ultimi giorni del festival, quando molta critica internazionale sentiva il bisogno di un film rivelazione che fino a quel momento mancava. E quindi il Grand prix, il secondo del palmares per importanza gerarchica, a All we imagine as light – Amore a Mumbai non è solo meritato, ma è anche la rivelazione di un nuovo talento senza uguali nella cinematografia internazionale.
La regista di Mumbai riesce a fare un film universale, capace di parlare anche al cuore degli uomini perché, pur essendo incentrato sulle donne, e in particolare su tre donne, la solitudine rappresentata è quella di tutti, uomini compresi: quelli delle nuove generazioni soffrono e sperano come le donne. Altro grande film sulla solitudine contemporanea, in sala a poca distanza da Joker: folie à deux di Todd Phillips, All we imagine as light ne è l’esatto rovescio sotto ogni aspetto. È un film incantatorio come un carillon, ipnotico come le opere dei cineasti surrealisti. Rapisce come un oggettino desueto per bambini e ipnotizza nel profondo come un cinema che in occidente quasi nessuno sa più fare, compresa Hollywood, che un tempo ne traboccava.
In All we imagine as light – situato tra la sera e la notte, la veglia e il dormiveglia – abbiamo il sogno come realtà. Un film-sogno che definirlo intenso è insufficiente. In verità, Kapadia riesce – altro exploit, tra i molti – a realizzare un film fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni, per dirla con la frase più abusata di Shakespeare, narrando la quotidianità banale e quella problematica, anzi facendo perfino diventare la realtà, quella da documentario, un sogno.
Del resto, tra le intenzioni dichiarate della regista c’è quella di fare un documentario come un sogno e viceversa, come pure di fare una fiction che sembra un documentario, e viceversa. E riesce a rilanciare con forza un concetto, quello dell’annullamento dei confini tra documentario e finzione – centrale nel cinema d’autore della fine degli anni novanta e inizio duemila – che sembrava quasi esaurito in termini di capacità d’innovazione. Non a caso Payal Kapadia arriva al cinema di finzione dopo diversi cortometraggi, alcuni documentari e altri di fiction, e un documentario, A night of knowing nothing, presentato a Cannes nel 2021 e premiato alla Quinzaine des réalisateurs. Incentrato sulle rivolte studentesche, come nel caso del nuovo film ruotava su notte, lettere, poesia, amore e distanza-assenza.
Prabha, capoinfermiera in un ospedale di Mumbai, è avvolta dalla solitudine. Dopo il matrimonio combinato dalla famiglia, il marito è dovuto partire per lavorare in Germania. Divide le spese nell’appartamento con Anu, una collega d’ospedale, anche lei infermiera. Ma Prabha non può fare a meno di interessarsi ai problemi di tutti. Sorta di sorella maggiore di Anu, prova ad aiutare Parvaty, cuoca della mensa dell’ospedale che rischia di perdere l’appartamento concesso al marito quando sono stati chiusi i cotonifici dove lavora.
Stando alla regista, quando furono chiusi i cotonifici, nati grazie ai soldi pubblici, gli operai furono completamente abbandonati, mentre invece i terreni con fabbriche e abitazioni avrebbero dovuto essere assegnati agli operai e alle loro famiglie, invece di andare a ricchi finanzieri per costruire complessi residenziali. Furono le donne a reagire e il film è una rielaborazione di quegli eventi.
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In questa grande sinfonia dell’amicizia e dei fili sottili quanto pervasivi di cui è fatta, tutto avviene di notte, il giorno non si capisce dove sia ed è assolutamente incredibile la capacità della regista di cogliere una moltitudine di scorci della vita di strada, una moltitudine di esseri umani e luci disparate che sfiora una forma di psichedelia. Con un colore turchese dominante, straripante, per oltre metà del film. Siamo costantemente immersi in un’atmosfera quasi da fiaba, da leggenda mitica. Al limite, non lontani da un Rudyard Kipling, in senso rovesciato ovviamente.
Un momento chiave è quando Prabha è inquadrata nella notte mentre legge un’agendina a fiori aiutata dalla luce del telefono per non disturbare la sua coinquilina Anu, mentre dietro di lei, oltre la finestra, piove – siamo nella stagione dei monsoni – e scorrono le luci in movimento di un treno. Nel descriverla la scena sembra forse banale, vederla invece è chiaramente una magia, un’epifania che sembra un’emanazione dall’India arcaica, anche perché la regista attraverso la finestra incornicia perfettamente la protagonista, tanto quanto gli ambienti: l’insieme diventa così un superquadro, o se si preferisce un miniquadro dentro a un quadro, dal sapore antico. Grazie a costruzioni visive minimaliste come questa il film gioca su cortocircuiti temporali evocando e suscitando sensazioni, sia sensoriali sia mnemoniche, forti e continue.
Tutto questo rapisce definitivamente lo spettatore quando poi, fuoricampo, si sente, suadente, una voce maschile che legge una poesia: “I miei sogni si compongono di oggetti quotidiani, piccoli e frammentari, che mi sono lasciato alle spalle. La mia speranza è solo un altro scrigno pieno di oggetti che porto con me in ogni luogo. E ora, sei lì, nella casa di un vicino, come una lampada di cui ammiro il bagliore per tenermi caldo la notte”.
È l’agendina contenente una poesia che gli aveva dato all’uscita dal lavoro un collega medico, raccomandandosi di leggerla solo a casa. Prabha si sveglia improvvisamente nella notte e la legge quasi di nascosto: qui il momento intimo e l’atto magico si equivalgono e potremmo definirlo il tratto distintivo dell’intero film. Lo descrive nella sua essenza: il film è fatto di quotidianità, di piccole cose (gli oggetti) e di grandi dolori, spesso sommessi, ma il tutto è avvolto in un dolce, avvolgente sogno, anzi in tante bolle di vita reale che sembrano altrettanti sogni.
Come le donne non sono libere in amore, e spesso anche al lavoro – anche se non troppo a Mumbai – gli uomini sono costretti alla distanza, che ha modalità diverse: il marito lontano di Prabha che da tempo non dà notizie, ma che forse le ha inviato un regalo misterioso che la attira e inquieta; il medico innamorato di Prabha, che ha difficoltà con la lingua hindi, straniero e sperduto in quella immensa città; Shiaz, il dolce ragazzo musulmano indifferente alle tradizioni di cui Anu è innamorata. Perfino in quella città, per via della questione religiosa, Shiaz è costretto a nascondere la loro relazione.
La cineasta afferma che per lei, appartenente a una casta e a una classe privilegiate, essere donna non è un problema. Ma tutto cambia per le altre caste e classi. Secondo Kapadia, in India l’amore, e i sentimenti in generale, sono una questione politica.
Le due donne, Prabha e Anu, seguite segretamente da Shiaz, accompagnano Parvaty che torna al villaggio dov’è nata, nel Maharashtra, e dove ha una casa. Del resto, tutte e tre provengono da lì. E improvvisamente il film diventa diurno, immerso nel verde della natura e nel blu del mare. Un’apparizione si compie, degna di un racconto mitico. E tutto cambia, nella staticità, nella serena contemplazione, nell’empatia. Perché l’immaginazione, intesa come interiorità, si fa luce. La notte torna, ma è un nuovo giorno in questo capolavoro pieno di bellezza e umanità vera. La sua magia più grande.
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