In uno dei saggi del suo nuovo libro, Carta nera (Einaudi 2025), lo scrittore afroamericano Teju Cole parla di Caravaggio e spiega cosa distingue un’opera che riesce a cogliere “il dolore, la solitudine, la bellezza” di una vita spezzata o finita nel vortice della violenza, da un lavoro che invece si infrange e fallisce su temi così delicati e universali. C’è “un sapere che aleggia, secoli dopo, sulla superficie delle sue tele”, scrive Cole, “il sapere di tutto il dolore, la solitudine, la bellezza, la paura e la terribile vulnerabilità che i nostri corpi hanno in comune”.

Quando nel raccontare il dolore degli altri una foto, un romanzo o un film non riescono a cogliere questo sapere, spesso il risultato oscilla tra il cliché e lo shock. Parlando di foto che ritraggono scene di violenza, guerra o catastrofe, la filosofa statunitense Susan Sontag ne sottolineava l’ambiguità e i rischi in un libro del 2003 intitolato appunto Davanti al dolore degli altri: “L’immagine come shock e l’immagine come cliché rappresentano due facce della stessa medaglia”.

È un rischio che corre anche un piccolo documentario indipendente che sta avendo ottime recensioni e sta riempiendo le sale in cui è proiettato. Il film si intitola San Damiano, l’hanno girato Gregorio Sassoli e Alejandro Cifuentes, e racconta il mondo dei senza tetto che gravita intorno alla stazione Termini di Roma.

Shock

Il protagonista è Damian, un polacco di 35 anni con alle spalle un passato di abusi e rotture familiari. Arrivato nella capitale con cinquanta euro in tasca, sogna di fare il cantante e a differenza di altri non va a dormire alla stazione ma sceglie come rifugio una torre delle mura Aureliane che costeggiano il vicino quartiere di San Lorenzo. Sassoli e Cifuentes lo incontrano per caso una sera a Termini, dove avevano fatto volontariato con la comunità di Sant’Egidio e dove all’inizio volevano girare un altro film. Lo seguono per circa un anno e da decine di ore di girato montano un documentario che oscilla tra la storia d’amore con Sofia, un’altra senza tetto, e un talent in cui i due autori fanno letteralmente succedere le cose, invece che limitarsi a filmarle, presentando Damian a dei produttori per fargli incidere delle sue canzoni.

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Fin dalla cartella stampa il documentario è presentato come “un’esperienza viscerale che ci conduce negli abissi della città eterna”, “un viaggio che scuote le coscienze e lascia un segno indelebile”. Damian è sospeso “tra l’innocenza di un angelo e l’ambiguità di un diavolo”, “un puntino bianco di speranza in un oceano nero”, un “santo” con una “psiche fragile e vulnerabile” che cerca il riscatto “nell’inferno di Termini”.

La grammatica dello shock di cui parlava Sontag è chiara ed è evidente anche nel modo di girare di Sassoli e Cifuentes. Il documentario si apre quasi subito con un ralenti su una senza tetto e una musica sostenuta e drammatica: due tecniche che ritornano nel film, contribuendo a fare dell’enfasi una delle sue cifre. In questa direzione vanno anche i tanti primi piani sui volti dei protagonisti o su dettagli crudi come ferite, cicatrici, aghi che bucano vene.

In alcuni casi il filo del racconto è interrotto. In parte dal montaggio alternato di gente ripresa per strada, che fa somigliare quelle parti a una sorta di carosello di freak. E in parte dai brevi video girati da Damian con il suo telefono. In uno si vede un anziano con i pantaloni abbassati e le cosce ricoperte di escrementi in un ospedale psichiatrico. Un’immagine che ferisce più delle tante sequenze di violenza del documentario, perché si appropria ed espone una fragilità assoluta. Nella scelta di usarla, Sassoli e Cifuentes non sembrano tenere conto del lavoro di rispetto e denuncia di fotografi come Letizia Battaglia o Gianni Berengo Gardin, che nei manicomi ci sono entrati senza mai censurarsi, ma anche senza mai perdere di vista il rispetto di una vita piegata.

Non mancano scene di sesso per strada. Se da un lato è necessario raccontare come si sia costretti ad amarsi in certe condizioni, dall’altra vale ancora la pena ricordare cosa scriveva Sontag in Davanti al dolore degli altri: “La voglia di immagini che mostrano corpi sofferenti sembra essere forte quasi quanto il desiderio di immagini che mostrano corpi nudi”. San Damiano non sembra sfuggire a questo desiderio.

Raccontare le vite degli altri, e specialmente quelle ferite o sconfitte, comporta un equilibrio difficile e delicato, perché chi filma o scrive ha un potere praticamente assoluto su chi gli consegna un pezzo della propria storia. “La lingua è anche un luogo di lotta (…) Raccontami solo del tuo dolore. Voglio sapere la tua storia. Poi te la riracconterò in una nuova versione. Sono pur sempre autore, autorità”, come ha ricordato la scrittrice, attivista e femminista statunitense bell hooks in Elogio del margine (Tamu edizioni 2020). Il potere può manifestarsi nelle tecniche usate per raccontare una vicenda, nelle parole scelte, ma anche in quelle evitate. In San Damiano una parola che manca è “contesto”.

Cliché

Un pezzo di contesto in Italia è questo: negli ultimi vent’anni il numero delle persone che vivono in condizioni di povertà assoluta è passato da poco meno di due milioni a quasi sei milioni. Insieme formerebbero la seconda regione più grande del paese. Secondo l’Istat, invece, i senza tetto e senza dimora che vivono per strada, in alloggi di fortuna o in condizioni precarie sono circa centomila. Se si dessero appuntamento nello stadio di calcio più grande del paese, il Meazza di Milano, ventimila resterebbero fuori. Cifre così enormi possono far immaginare la complessità di questi fenomeni: tra chi finisce per strada ci sono persone alle prese con dipendenze, ma anche gente che lavora, persone che riescono a risollevarsi da sole o grazie ad associazioni e volontari, e altre che avrebbero bisogno di cure. I motivi del crollo possono essere diversi: una rottura familiare, una malattia psichiatrica, un licenziamento, la fuga da un marito violento.

In San Damiano questa complessità sembra appiattirsi su una serie di stereotipi. Chi vede il documentario resta incollato a un’immagine e a un’idea precisa dei senza tetto: gente con problemi di droga e alcol, violenta, brutale, degradata, il più delle volte in preda a istinti animali. Uno dei pochi protagonisti del documentario che sfugge a questa visione è Costantino, un anziano che intreccia una sorta di relazione con Sofia, la ragazza di Damian. Costantino accenna all’incidente in cui è morta la figlia da giovane e dice che l’evento ha distrutto anche la moglie. A lui sono rimasti una casa e poco altro. Nelle sue parole e nel suo sguardo c’è una dolcezza mite, ma ogni gesto di tenerezza è spazzato via dalla lingua che Sofia mostra alla camera per baciarlo, mentre uno dei loro amici dice qualcosa come: “Alla fine Costantino si vuole scopare Sofia, è tutto qua”.

Mi è capitato di dormire alla stazione Termini o sui marciapiedi nei dintorni per raccontare delle storie. E la violenza più grande che mi è capitato di osservare non è stata quella tra persone spinte ai margini, ma quella dello stato. Sia nella sua assenza totale di fronte a delle situazioni di povertà estrema ormai croniche, sia nella sua manifestazione attraverso sgomberi e allontanamenti. Nella capitale vivono tra quattordicimila e ventimila persone senza dimora, mentre i posti letto per ospitare chi è in difficoltà sono circa 1.300. In compenso, la città è quella che “in Italia ha emesso più ordini di allontanamento (cosiddetti mini-daspo) e che ha la percentuale più elevata di soggetti pluridaspati” in nome del decoro, secondo un rapporto dell’associazione Nonna Roma. I più colpiti vivevano o gravitavano intorno alla stazione, dove tra l’altro associazioni e volontari lamentano da tempo gli ostacoli per consegnare pasti o coperte.

La mancanza di qualsiasi informazione su questo contesto fa sembrare Damian, Sofia e gli altri come degli alieni, vittime di se stessi, autoreclusi ai margini della società. Tuttavia, “i margini non sono equiparabili a un mero fatto di natura. Sono prodotti da determinati modi di vedere e di organizzare lo spazio sociale”, come ha spiegato il professore di storia culturale italiana David Forgacs nel saggio Margini d’Italia (Laterza 2015). In San Damiano “la terribile vulnerabilità che i nostri corpi hanno in comune” di cui parla Cole si perde. C’è un “noi” e c’è un “loro”. È una scelta che rischia di essere consolatoria, perché con tutta evidenza la condizione catastrofica in cui molte persone finite per strada si trovano ha delle responsabilità diffuse, che toccano anche molti di noi.

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