11 novembre 2010 00:00

Patrick Modiano, Nel caffè della gioventù perduta

Einaudi, 120 pagine, 13,00 euro

La stagione letteraria italiana è nel suo pieno, e propone libri fin troppo ambiziosi. Li affronteremo, ma intanto ci riposiamo leggendo l’ultimo Modiano, con la sua brevità e la sua apparente modestia. Dandoci con regolarità un breve romanzo ogni due anni, Modiano non ha mai tradito la sua vocazione al resoconto minuto e asciutto, senza ricatti di sorta, di storie secondarie che trovano nella Storia con la esse maiuscola il loro senso (o nonsenso), e che hanno la Storia come loro sfondo.

I miei preferiti sono Dora Bruder e Un pedigree, che rappresentano bene le sue ossessioni: il tempo dell’occupazione tedesca e la figura sfuggente del padre. Altra ossessione: la precisione nelle ambientazioni, nella toponomastica parigina. Anche qui, nel “caffè della gioventù perduta”, il bar di cui si parla è un vero bar che si trovava (tra gli anni cinquanta e sessanta, quelli della giovinezza dell’autore) dalle parti dell’Odéon. E alcuni dei suoi frequentatori abituali sono veri (il drammaturgo Adamov, per esempio) e forse anche Louki, la protagonista, ha una base reale con la sua storia di comune sbandamento di una generazione, i suoi amori incerti, il suo mistero non grande, il suo fascino sottile, la sua triste fine. Una Nadja (Breton) o una Odile (Queneau) più terrena, o una Karina di Godard: meno ardita e ideale, più malinconica e nostra.

Internazionale, numero 872, 12 novembre 2010

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