07 luglio 2015 13:35

Il governo greco ostenta tranquillità: forte del “no” a grande maggioranza incassato al referendum del 5 giugno, potrà tornare al tavolo dei negoziati per raggiungere un nuovo compromesso molto più favorevole che gli permetterà di restare nella zona euro. Si sente in posizione di forza perché è certo che i suoi partner non oseranno mai correre il rischio dell’uscita della Grecia dalla moneta unica, che potrebbe destabilizzare l’intera zona euro.

Atene dovrà spiegare già oggi ai suoi partner quello che vuole, perché è stata convocata una riunione dell’eurogruppo (i 19 ministri delle finanze più il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea) seguita da un vertice dei capi di stato e di governo della zona euro. Come segno di buona volontà, il primo ministro greco Alexis Tsipras ha proceduto a una “Varoufexit”, sostituendo il suo ministro delle finanze Yanis Varoufakis che era riuscito a inimicarsi tutti i suoi colleghi della zona euro. Ma non è certo che i suoi partner la vedano nello stesso modo. Tre sono gli scenari possibili.

In futuro ogni paese che fallisce potrà essere tentato di fare appello al suo popolo per esonerarsi dalle regole comuni

Separazione consensuale
Le autorità europee avevano avvertito che un “no” al progetto di accordo tra la Grecia e i suoi creditori (zona euro ed Fmi) avrebbe significato un’uscita dalla moneta unica. “Solo la Francia, l’Italia e la Commissione vogliono veramente riprendere il negoziato”, dicono a Bruxelles. Gli altri vogliono far pagare a Tsipras il suo bluff. Lo si è capito bene già domenica sera con le dichiarazioni del governo tedesco, quando il vicecancelliere socialdemocratico Sigmar Gabriel ha affermato che riprendere le discussioni sembrava “difficilmente immaginabile”, perché Tsipras aveva “tagliato gli ultimi ponti”. Il referendum “è un rifiuto del principio che ha guidato gli aiuti ai paesi europei in difficoltà, secondo cui la solidarietà e gli sforzi sono indissociabili”, ha osservato Steffen Seibert, il portavoce di Angela Merkel. Tutti i piccoli paesi poveri della zona euro (i tre paesi baltici, la Slovacchia e la Slovenia) o quelli che hanno dovuto risanare i loro conti pubblici (Portogallo, Irlanda, Cipro) sono sulla stessa posizione. I conservatori europei, riuniti nel Ppe, propongono già adesso la creazione di un “aiuto umanitario” per attutire il trauma dell’uscita della Grecia dall’euro.

Questi paesi sono ancora meno disponibili all’indulgenza in quanto hanno paura di creare un precedente: in futuro ogni paese che fallisce potrà essere tentato di fare appello al suo popolo per esonerarsi dalle regole comuni o per ottenere la cancellazione totale o parziale del suo debito. In altre parole, la vittoria del “no” ha rafforzato il campo degli inflessibili, che non solo non credono più a quello che dice il governo di Syriza (sinistra radicale), ma sono convinti che l’uscita della Grecia colpirà in modo solo marginale una zona euro che si è considerevolmente rafforzata dal 2010 e che ha mostrato di essere capace di risolvere i problemi degli altri paesi in crisi. La calma dei mercati degli ultimi dieci giorni sembra dare loro ragione.

Di fronte all’impossibilità di trovare un minimo terreno di intesa, Atene potrebbe accettare una separazione consensuale per limitare i danni. Quest’uscita sarebbe presentata come “temporanea”, solo il tempo di cui il paese ha bisogno per riformarsi. Questo gli permetterebbe di restare nell’Unione europea (gli aiuti regionali e la politica agricola comune rappresentano il 4 per cento del pil greco), perché un’uscita definitiva dall’euro andrebbe di pari passo con un’uscita dall’Unione. Inoltre la Grecia otterrebbe il sostegno della Bce, cosa che permetterebbe alle banche greche di resistere fino alla reintroduzione della dracma.

Questa volta Tsipras potrà trattare forte del sostegno di un intero popolo che gli ha dato mandato per negoziare a nome della Grecia

Accordo
È lo scenario a cui nessuno ormai osa più credere, dopo cinque mesi di docce fredde a ripetizione. Ma questa volta Tsipras potrà trattare forte del sostegno di un intero popolo che gli ha dato mandato per negoziare a nome della Grecia. Quello che era inaccettabile prima del referendum potrebbe quindi diventare accettabile in queste condizioni, e l’estrema sinistra di Syriza dovrà ormai riconoscere che la legittimità del suo leader non dipende più da essa. “Abbiamo poco tempo per arrivarci a causa della scadenza del 20 luglio: in quel momento la Grecia dovrà aver ricevuto il denaro per rimborsare la Bce, cosa che implica l’approvazione preventiva di diversi parlamenti”.

Tsipras ha sottoposto a referendum la versione dell’accordo del 25 giugno e non quella più favorevole del 26 giugno, forse allo scopo di avere un margine di manovra per arrivare a un accordo rapido. In ogni modo i suoi partner, sempre se saranno disposti a chiudere la trattativa, difficilmente concederanno molto di più nei tempi previsti.

In realtà è sul debito che Tsipras vuole ottenere qualcosa di concreto. Anche se i prestiti concessi dagli europei non influiscono sul bilancio greco, poiché alla fine del 2012 è stata accordata una moratoria fino al 2023 accompagnata da una riduzione dei tassi, è il suo rimborso futuro che spiega l’esigenza di un forte attivo primario del bilancio negli anni futuri. Gli europei avevano già preso in considerazione l’idea di fare un gesto supplementare (in particolare allungando i prestiti da 30 a 50 anni) se si fosse giunti a un accordo il 27 giugno. Ma dopo il voto di domenica la situazione si è complicata. Qualunque concessione apparirà come un premio dato al colpo di mano di Syriza. Il ministero delle finanze tedesco ha già affermato che una riduzione del debito greco non è in questione.

Uscita non coordinata
“Nessuno vuole prendersi la responsabilità politica di buttare fuori la Grecia”, si dice alla Commissione. “Se Tsipras non arriva con un piano convincente, è probabile che si lascerà semplicemente la situazione così com’è”: in altre parole, si aspetterà che il paese soffochi. Anche se la Bce mantiene la sua linea di liquidità di emergenza (Ela) al livello attuale (più di 90 miliardi), in pieno contrasto con le sue regole interne, “nelle casse greche rimangono tra 500 milioni e un miliardo di euro”, sottolinea Wolfango Piccoli, economista del think tank Teneo intelligence. Se Francoforte non aumenterà questo tetto, le banche non potranno più alimentare i bancomat e il controllo dei capitali sarà rafforzato. Secondo una fonte del governo greco già oggi i prelievi quotidiani dovrebbero passare da 60 a 20 euro. I funzionari statali e i pensionati non dovrebbero essere pagati a fine mese. “Stiamo tagliando tutti i legami tra le succursali delle banche greche in Bulgaria e in Romania e la loro casa madre”, ammettono a Bruxelles. La Bce manterrà probabilmente fino al 20 luglio la sua linea Ela, ma non dopo il mancato rimborso di 3,5 miliardi che Atene le deve. A partire da quel momento il fallimento del sistema bancario greco sarà solo questione di giorni.

Il governo non avrà altra scelta che emettere una moneta parallela, i famosi Iou (”I owe you”), dei titoli di debito presso lo stato. Ma questa sarebbe solo una soluzione temporanea, in vista del ritorno puro e semplice alla dracma. Tuttavia per la Grecia questo non significherà sbarazzarsi del proprio debito, che dovrà negoziare con i suoi creditori se non vorrà che questi ultimi sequestrino i suoi beni all’estero (compresi gli aerei e le navi) e rendano impossibili le sue transazioni internazionali. E questo vale che l’uscita della Grecia avvenga in modo amichevole o meno: nessun paese può esonerarsi unilateralmente dal proprio debito.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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