12 dicembre 2010 16:40

La patetica resa di Washington a Israele è stata uno dei momenti più umilianti della storia della diplomazia statunitense. A settembre è scaduto il blocco di nuove costruzioni negli insediamenti ebraici dei Territori occupati, e i palestinesi hanno interrotto i negoziati diretti con Israele.

A quel punto gli Stati Uniti hanno chiesto un nuovo congelamento di tre mesi negli insediamenti, esclusi quelli della Gerusalemme Est araba. E l’amministrazione Obama, per convincere Netanyahu ad accettare una nuova sospensione e rilanciare così i colloqui di pace, le sta provando tutte. Tra i regali offerti al governo israeliano di estrema destra ci sono anche tre miliardi di dollari per l’acquisto di cacciabombardieri a reazione.

Questa generosità a spese dei contribuenti torna anche a vantaggio dell’industria statunitense, che così guadagna due volte dalla militarizzazione del Medio Oriente. Di recente, infatti, ha venduto armamenti all’Arabia Saudita per 60 miliardi di dollari, una transazione utile anche per far rientrare petrodollari nell’economia statunitense in difficoltà.

La minaccia iraniana

Il pretesto per la grande vendita di armi all’Arabia Saudita è stato la difesa dalla “minaccia iraniana”. Ma la minaccia iraniana non è di tipo militare: il vero pericolo, per Washington, è che l’Iran sta cercando di espandere la sua influenza sui paesi vicini, “stabilizzati” dall’invasione e dall’occupazione statunitense dell’Iraq. La linea ufficiale è che gli stati arabi stanno chiedendo aiuti militari a Washington per difendersi dall’Iran.

Vera o falsa che sia, quest’affermazione ci fornisce una lettura interessante del concetto di democrazia. Qualunque cosa preferiscano le dittature al potere nel mondo arabo, da un recente sondaggio della Brookings institution è emerso che tra le principali minacce per la regione i cittadini arabi mettono Israele al primo posto (88 per cento), gli Stati Uniti (77 per cento) al secondo e l’Iran al terzo (10 per cento). È interessante notare che le autorità statunitensi, come rivelano i dispacci pubblicati da Wikileaks, hanno ignorato l’opinione pubblica araba, e si sono limitati ad ascoltare i dittatori.

Tra i regali degli Stati Uniti a Israele c’è anche il sostegno diplomatico. Washington si impegna a mettere il veto su qualsiasi risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che possa infastidire i leader israeliani e a lasciar cadere ogni richiesta di un ulteriore blocco degli insediamenti. Quindi, dopo aver accettato la pausa di tre mesi, Israele non sarà più disturbato dai suoi finanziatori quando riprenderà le sue azioni criminali nei Territori occupati.

Sul fatto che queste azioni siano criminali non c’è mai stato dubbio fin dal 1967, quando il giurista Theodor Meron informò il governo israeliano, di cui era consulente, che i suoi piani per avviare insediamenti nei Territori occupati violavano la quarta convenzione di Ginevra. Anche il ministro della difesa Moshe Dayan sapeva che Meron aveva ragione, come racconta lo storico Gershom Gorenberg in The accidental empire. Ma la cosa non lo turbava più di tanto.

Dayan disse agli altri ministri: “Dobbiamo consolidare il nostro controllo del territorio così che con il tempo riusciremo a ‘inglobare’ Giudea e Samaria (Cisgiordania) e a fonderle con ‘il piccolo Israele’”, e nel frattempo “smembrare la continuità territoriale” della Cisgiordania, con il solito pretesto che “è necessario dal punto di vista militare”. L’ipotesi di Dayan, che alla fine si sarebbe rivelata corretta, era che Washington avrebbe solo protestato formalmente, continuando a dare supporto militare, economico e diplomatico a Israele.

Insediamenti pericolosi

La questione dell’espansione delle colonie è solo un diversivo. Il vero problema è l’esistenza stessa degli insediamenti, tutti progettati in modo che Israele potesse inglobare più del 40 per cento della Cisgiordania occupata, le terre coltivabili e le principali risorse idriche della regione, che si trovano tutte sul lato israeliano del muro di separazione, che in realtà è un muro di annessione.

Dal 1967 Israele ha enormemente ampliato i confini di Gerusalemme nonostante le obiezioni della comunità internazionale. Ma il problema degli insediamenti, e l’umiliazione di Washington, non sono gli unici aspetti ridicoli dei negoziati in corso. La loro stessa struttura è una farsa. Gli Stati Uniti sono dipinti come onesti mediatori che cercano di favorire un accordo tra due avversari riluttanti. Ma una trattativa seria avrebbe dovuto essere condotta da un’entità neutrale, con gli Stati Uniti e Israele da una parte e il resto del mondo dall’altra.

Non è un segreto che da 35 anni Stati Uniti e Israele sono praticamente gli unici a opporsi all’idea di una soluzione politica che metta d’accordo gli stati arabi, l’Organizzazione della conferenza islamica (Iran compreso) e tutte le altre parti interessate. Con rare eccezioni, questi due paesi hanno sempre preferito l’espansione illegale alla sicurezza. A meno che Washington non cambi posizione, una soluzione politica è impossibile. E l’espansione, con le sue conseguenze in tutta la regione e nel mondo, continua.

*Traduzione di Bruna Tortorella.

Internazionale, numero 876, 10 dicembre 2010*

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