È disarmante. Non tanto il “VeryBello” in sé – scelta esteticamente e linguisticamente discutibile per il portale-vetrina degli eventi di Expo 2015. È disarmante il fatto che non esista, a oggi, una versione in inglese del sito (per ora c’è una bandiera britannica con la scritta Coming soon).
Dietro una scelta di questo tipo c’è anche una curiosa fragilità psicologica. Eppure i dati presentati alla settimana della lingua italiana nel mondo qualche mese fa erano confortanti: l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo, cresce l’interesse e la richiesta anche legata esclusivamente alla “passione”. Una scrittrice anglobengalese di rango come Jhumpa Lahiri, che da qualche anno vive a Roma, ha scritto in italiano il suo libro più recente, In altre parole (pubblicato da Guanda e nato dai racconti usciti su Internazionale).
Segnali che a quanto pare non bastano, se anche i nostri grandi registi abbandonano la lingua madre. Vantaggi di produzione, distribuzione, platee, è ovvio. Ma, come notava Emiliano Morreale sul domenicale del Sole 24 Ore, Sorrentino, Garrone e Costanzo sembrano cercare “verità e ambizioni alte fuggendo dall’italiano”. Vale la pena riflettere. Senza essere tra i campioni di conoscenza dell’inglese o di altre lingue straniere, smitizziamo la nostra lingua mentre a mitizzarla sono altri.
E gli scrittori, in tutto questo? Non si fanno più troppi problemi. Alain Elkann – raffinato cosmopolita, attualmente di stanza a Londra e papabile come direttore dell’Istituto italiano di cultura nella capitale britannica – in un’intervista ha dichiarato l’intenzione di scrivere in inglese il suo prossimo libro, “perché il mercato è più ampio”. Certo, ma non dovrebbe essere leggermente più stretto e problematico il legame tra uno scrittore e la sua lingua? E anche più appassionata o sofferta, come dimostra Lahiri, la scelta di una lingua di approdo, soprattutto se c’è di mezzo l’espressione letteraria? O una lingua è un abito come un altro?
Per Jhumpa Lahiri scrivere in italiano è stato come inserire un nuovo elemento in un complesso già ricco e preesistente. Lei parla di “innesto”, una parola che ha trovato per caso in un romanzo di Elena Ferrante e di cui si è totalmente innamorata. E di “innesto” si può parlare anche per i tanti scrittori venuti in Italia non per piacere, ma dopo un viaggio di migrazione. L’italiano per loro è stato prima di tutto necessità, vita quotidiana, sopravvivenza. Poi piano piano si è trasformato in qualcosa di totalmente diverso. Una lingua che permetteva di esprimere liberamente un proprio io in divenire. Solo gli scrittori originari del Corno D’Africa avevano di fatto legami linguistici con l’italiano, ma per tutti gli altri è stata una scelta di campo libera.
L’italiano non era la lingua di casa, ma nemmeno la lingua imposta dalle ex potenze coloniali. Ed ecco che scrittori come Amara Lakhous e Tahar Lamri, scrivendo in questo loro italiano appreso nelle piazze, sono riusciti a creare un nuovo codice linguistico fatto di scambi e contaminazioni.
L’italiano però resta anche un po’ quello della dolce vita. Sono ancora in tanti a cercare tra le pieghe della lingua anche uno stile. Diana Hales infatti si è inventata il sito becoming italian word by word dove insieme alle parole, ai modi di dire, si trova un vademecum su come diventare italiani attraverso racconti sul Natale, sul traffico, sul cibo. Ma Dianne Hales va oltre e racconta anche come l’Italia ha vissuto il post Charlie Hebdo.
La nostra lingua al momento sembra di fatto interessare più gli altri. Sono loro che la amano, la scrivono, la diffondono. E forse non è un caso che il primo ambasciatore della lingua sia proprio papa Francesco che con la sua simpatia sta spingendo più di una persona a iscriversi a un corso d’italiano. Purtroppo in Italia manca un serio investimento sulla lingua e il paese rischia di perdere anche il treno dell’Expo. Una fragilità che ci costerà molto in futuro, se non troveremo presto una soluzione.
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