La prima mattina di maggio un giovane dal volto incappucciato, con la camicia e i pantaloni arancioni, sfila in plaza de la Revolución durante la festa dei lavoratori. Protesta per i detenuti che gli Stati Uniti tengono nella base navale di Guantanamo. Ma quasi subito alcune guardie si accorgono di lui e lo portano via.

La zona militare degli Stati Uniti, nella parte orientale di Cuba, è lo scenario di molti drammi umani al di qua e al di là delle sue frontiere imposte contro la volontà popolare nel 1903. La frontiera è disseminata di mine con cui il governo cubano evita l’esodo dei suoi cittadini in territorio statunitense, contravvenendo alla convenzione di Ottawa del 1997, che vieta l’uso, lo stoccaggio e la produzione di queste trappole mortali. Qualche settimana fa un ragazzo di sedici anni e suo fratello avevano trovato un oggetto con cui giocare. Gli hanno dato un calcio e c’è stato uno scoppio. Il più piccolo è finito in ospedale, l’altro al cimitero.

Non sempre i muri separano due luoghi diversi. A volte dividono persone che si somigliano per sogni o problemi. È il caso di questo perimetro intorno a cui abita il desiderio di fuggire dall’altra parte. Alcuni indossano uniformi arancioni, sono accusati di appartenere ad Al Qaeda e sognano di uscire dalla prigione. Altri si trascinano dietro la monotonia delle loro vite e la frustrazione che li spinge a rischiare per raggiungere questa Guantanamo che non conoscono, dove ondeggia una bandiera piena di stelle.

*Traduzione di Sara Bani.

Internazionale, numero 896, 6 maggio 2011*

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