17 gennaio 2022 12:18

Per Marko Djogo è sempre un momento doloroso quando un suo studente si laurea e gli dice che sta per partire. Di recente gli è successo con una coppia: sia il ragazzo sia la ragazza erano stati suoi studenti. Per quattro anni li ha visti crescere, dal punto di vista intellettuale e da quello emotivo. È molto importante per il nostro paese, ha sempre pensato Djogo, perché abbiamo bisogno di giovani così. “Professore, grazie di tutto”, gli ha detto invece la ragazza dopo l’ultimo esame. “Ci sposiamo e ce ne andiamo” .

“In bocca al lupo”, ha risposto il professore. Cos’altro poteva fare? Come docente di economia all’università di Pale, nella Repubblica serba della Bosnia Erzegovina, capisce perfettamente perché i ragazzi cercano fortuna altrove. Dopotutto per quale motivo dei giovani accademici dovrebbero rimanere in un paese messo in ginocchio dalla corruzione e dove la lealtà a un partito conta più delle capacità intellettuali, un paese ancora piegato sotto al peso dei traumi della guerra degli anni novanta, e che rischia presto di dover affrontare un nuovo conflitto?

Ma dentro di sé inorridisce: per quattro anni ha investito in quegli studenti, nella speranza che – insieme alla nuova generazione – una brezza fresca tornasse ad attraversare il paese. Ma se quella nuova generazione se ne va in massa, ci vorrà ancora un bel pezzo prima che cambi qualcosa.

Il rischio della guerra
La Bosnia Erzegovina sta affrontando la più grande minaccia alla sua stessa esistenza dopo la guerra degli anni novanta. Il 5 gennaio gli Stati Uniti hanno varato sanzioni nei confronti di Milorad Dodik, il leader dei serbobosniaci, accusato di corruzione e di “attività destabilizzanti che minano gli accordi di pace”. L’amministrazione del presidente Joe Biden ha congelato immediatamente tutte le sue proprietà negli Stati Uniti. Queste sanzioni rappresentano il primo intervento concreto della comunità internazionale da quando la crisi in Bosnia Erzegovina ha cominciato a farsi preoccupante, appena prima dell’inverno.

Banja Luka, 25 novembre 2021. Nella Repubblica serba della Bosnia Erzegovina non si celebra la festa nazionale, ma il partito d’opposizione ha deciso di organizzare comunque un evento nell’area industriale della città. Questo è l’unico luogo dove gli è stato permesso di festeggiare. (Martino Lombezzi)

All’inizio di novembre l’Alto rappresentante per la Bosnia Erzegovina, Christian Schmidt, ha messo in guardia la comunità internazionale sul rischio che il paese si spacchi in seguito al tentativo di secessione della Repubblica serba di Milorad Dodik. Secondo Schmidt, un nuovo conflitto nel breve termine non è da escludere. Questo avvertimento e le provocazioni di Dodik hanno fatto suonare tutti i possibili campanelli d’allarme. Le guerre degli anni novanta nell’ex Jugoslavia hanno causato più di 130mila morti. Un nuovo conflitto dev’essere evitato a ogni costo. Negli ultimi due mesi i rappresentanti dell’Unione europea e degli Stati Uniti si sono mobilitati per cercare di calmare gli animi, ma per molti bosniaci l’intervento non è stato abbastanza tempestivo né incisivo.

“Dodik sta ottenendo esattamente quello che vuole”, dice Marko Djogo nel suo ufficio al terzo piano dell’edificio dell’università di Pale, sulle colline sopra Sarajevo. “Crea scompiglio, ma ha un obiettivo prefisso: mantenere il potere. E oggi tutta l’attenzione è di nuovo su di lui”. Secondo Djogo le ultime azioni di Dodik sono soprattutto manovre diversive. “La paura di una nuova guerra distoglie i bosniaci dai veri problemi che flagellano il paese: la corruzione, la crisi economica, la sanità pubblica che non funziona. Dodik si presenta come il salvatore dei serbi, ma intanto conduce il paese all’abisso. È solo un politico furbo, non uno statista”.

L’ufficio di Marko si affaccia sulla piazza centrale di Pale, dove da poco è stata costruita una chiesa ortodossa nuova di zecca. Mentre la Jugoslavia si disgregava, questa città era nota per essere il bastione di Radovan Karadžić, il leader politico dei serbi di Bosnia. Nel 2019 il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia l’ha condannato all’ergastolo per crimini di guerra. Ma per alcuni serbobosniaci Karadžić è ancor oggi un eroe.

Punire il negazionismo
L’estate scorsa Valentin Inzko – che allora era l’Alto rappresentante per la Bosnia Erzegovina, rimasto in carica fino al 31 luglio 2021 – ha usato le facoltà straordinarie previste dalla sua carica per introdurre il divieto di negare il genocidio di Srebrenica e di celebrare i criminali di guerra. Da quel momento queste azioni possono essere punite con una pena detentiva che può arrivare a cinque anni.

Banja Luka, november 2021. L’analista politica Tanja Topić. (Martino Lombezzi)

“Il fatto stesso che questa legge fosse necessaria è tragico”, commenta Tanja Topić, analista politica a Banja Luka, capitale della Repubblica serba. “Ma questa è la dura realtà: ci troviamo a confrontarci ogni giorno con l’esaltazione dei criminali di guerra”. Piuttosto Topić si chiede perché ci siano voluti quindici anni per introdurre il reato di negazionismo. “Adesso è troppo tardi, in questo modo l’Alto rappresentante ha solo gettato benzina sul fuoco”.

Tuttavia Topić non teme che la Bosnia rischi di disgregarsi. “Forse sono ingenua, ma escludo la possibilità di una nuova guerra. Dodik non ha né i soldi né la capacità necessari. Ha goduto a lungo della fiducia della popolazione, ma i tempi sono cambiati. La gente si è accorta di quanto sia corrotto, molti lo odiano. Credo che la maggior parte dei serbi di Bosnia lascerà il paese se si arriverà davvero alla mobilitazione militare”.

Come il professor Djogo, anche Topić è convinta che i suoi concittadini abbiano ben altro per la testa. “La nostra più grande paura è una paura esistenziale: come facciamo a sopravvivere in questo paese dove tutto è allo sfacelo? Pensiamo al covid: molti preferiscono morire a casa piuttosto che andare a farsi curare in ospedale. Non c’è niente, ti devi portare perfino il paracetamolo”.

Esprimere critiche così aspre nei confronti del governo è spesso costato caro a Topić. L’anno scorso Dodik le ha dato pubblicamente della traditrice. “Dice che sono una spia tedesca, una collaborazionista. È pura provocazione”. Ogni tanto le capita di essere infastidita per strada, ma continua a essere convinta che la maggior parte dei serbobosniaci di buon senso siano d’accordo con le sue accuse. “La gente non ha il coraggio di esprimersi in maniera critica, per paura di perdere il lavoro. Le istituzioni pubbliche, l’assistenza: tutto è sotto il controllo dello stato. La cosa migliore è non dare nell’occhio”.

Kalinovik, novembre 2021. Un monumento dedicato al generale e criminale di guerra Ratko Mladić, nato a Kalinovik. (Martino Lombezzi)

Per le strade di Banja Luka si potrebbe effettivamente avere l’impressione che la retorica nazionalista del presidente Dodik sia ampiamente condivisa. Ovunque sventolano bandiere serbe, di bandiere della Bosnia Erzegovina neanche l’ombra. “Ratko Mladić, eroe serbo”, recita un graffito su un muro del centro città, dedicato al vecchio capo militare dei serbobosniaci.

Ma è il 25 novembre il giorno in cui la divisione del paese risulta più evidente, quando la Bosnia Erzegovina – o per lo meno la metà della sua popolazione – celebra la festa nazionale della Bosnia Erzegovina. Tutte le istituzioni del paese sono chiuse, ovunque ci sono festeggiamenti. Tranne che nella Repubblica Serba: lì è un giorno come un altro.

Eppure quest’anno in città, per la prima volta dagli accordi di pace del 1995, una cerimonia ufficiale è stata organizzata. In una zona industriale fuori mano, due guardie in uniforme sorvegliano un grande padiglione. “La Bosnia non è serba, islamica o croata”, dice Nermin Nikšić, presidente del Partito socialdemocratico davanti a una sala gremita di persone. “La Bosnia è tutto questo insieme, i nostri popoli sono uniti e noi siamo tutti uguali”. Le sue parole sono accolte da un grande applauso.

I partecipanti alla cerimonia guardano con timore alla retorica separatista di Milorad Dodik. Non è tutto bianco o nero come vogliono far credere i nazionalisti. Dopo la guerra, le città e i villaggi bosniaci sono effettivamente diventati etnicamente più omogenei di quanto non lo fossero mai stati, ma ci sono ancora molti musulmani e croati che vivono nella Repubblica serba e molti serbi residenti nella Federazione croato musulmana. Anche il confine geografico tra le due entità non è sempre chiaro e spesso attraversa e divide paesi o quartieri. Su come si attuerebbe nel concreto una secessione e sulle conseguenze che avrebbe sugli abitanti di questi territori di confine o su coloro che vivono “dalla parte sbagliata” del confine Dodik per il momento non si sbottona.

Uno dei musulmani bosniaci che vivono nella Repubblica serba è Safet Čorbo, 53 anni. Nel 2010 è tornato a Trošanj, un piccolo borgo sulle colline sopra Foča, nella Bosnia orientale. Durante la guerra in questa zona i combattimenti sono stati durissimi e i musulmani sono tutti fuggiti. “Nel 1992 qui c’erano 33 case”, racconta mentre imbocca con il fuoristrada un’uscita della provinciale che porta a una strada sterrata. “Quando sono tornato, dieci anni fa, c’erano solo rovine”.

Foča, novembre 2021. Safet Čorbo visita il memoriale per il massacro del 1992 nel suo villaggio, poco distante da Foča. (Martino Lombezzi)

A Sarajevo, dove ha vissuto dalla guerra in poi, Safet non è riuscito ad ambientarsi. Così ha deciso di ritornare nel suo paese natale, costruirsi una nuova casa e riprendere la vita da contadino. “Questo è il mio posto”, dice.

Sulla collina, sopra alla sua nuova casa, c’è la sua vecchia abitazione, o almeno quello che ne rimane. “Il 3 luglio 1992 arrivarono i paramilitari serbi”, racconta Safet. “Andarono di casa in casa, in totale uccisero più di trenta persone: soprattutto anziani, donne e bambini. Il più piccolo aveva due anni”. Safet aveva 24 anni e riuscì a fuggire appena in tempo. Raggiunse il monte Zelengora passando per le colline e da lì continuò fino a Sarajevo, percorrendo più di cento chilometri a piedi.

Nel 2007 Gojko Janković, il responsabile dei crimini denunciati da Safet, è stato condannato a 34 anni di reclusione dalla Camera speciale bosniaca per i crimini di guerra. “Eravamo vicini di casa”, dice Safet. “Amici”. Scuote la testa, non capisce neanche lui come sia potuto succedere. Ma si rifiuta di considerare i serbi nemici per via della guerra, e non crede che si arriverà presto a una nuova esplosione di violenza. “Duecento metri più avanti vive un serbo”, dice indicando la sua casa. “Siamo buoni vicini, ci aiutiamo nei campi. Non c’è nessun problema”. Ma davvero oggi non c’è nessun parallelismo con gli anni novanta, quando nessuno avrebbe mai immaginato che dei vicini di casa sarebbero arrivati a uccidersi tra loro? “Sono solo giochetti politici per metterci gli uni contro gli altri”, dice Safet categorico. “Non ci caschiamo più”.

Per molti musulmani bosniaci ritornare definitivamente nella propria terra natale è impensabile, di certo non nel clima politico attuale e non a Foča, dove si sono consumati i peggiori crimini di guerra del conflitto degli anni novanta. Lo scorso anno un artista locale ha realizzato, su alcuni palazzi non lontani dal centro, dei murales alti diversi metri che rappresentano criminali di guerra.

“Per noi non è un luogo sicuro”, dice Midheta Kaloper Oruli, presidente dell’organizzazione delle vittime di guerra di Foča. “Alcuni dei colpevoli sono ancora liberi, possiamo incontrarli in qualsiasi momento”.

Al piano terra di un complesso abitativo di Sarajevo le donne dell’organizzazione si riuniscono regolarmente per fare insieme dei lavori manuali: cuciono pantofole, borse e mascherine che poi vendono su Facebook. Ma la cosa più importante è che possono parlare, sfogarsi. Si capiscono bene, non hanno bisogno di molte parole.

Non credono che il recente divieto di celebrare i criminali di guerra cambierà qualcosa nel paese. “Il negazionismo dei crimini di guerra è aumentato”, dice Senada. “Se la legge venisse applicata sul serio, a quest’ora le nostre carceri straborderebbero”. Poi racconta della figlia diciottenne, che ha come modello Angela Merkel. “A Foča, invece, i giovani guardano con ammirazione a Mladić e Karadžić. Cosa ci dice questo sul nostro futuro?”.

Che ci siano anche molti giovani che sognano una Bosnia diversa risulta chiaramente da un recente studio delle Nazioni Unite: la metà degli interpellati afferma di prendere in considerazione l’idea di lasciare il paese in un prossimo futuro. “Una prospettiva disastrosa per la Bosnia Erzegovina”, commenta Marko Djogo, il professore di economia di Pale che ha già visto partire tanti studenti. A lui stesso è capitato più volte di discutere con la moglie riguardo all’opportunità di fare i bagagli e andarsene. “Lei è molto decisa: vuole andar via”, dice Djogo. “E anch’io ogni tanto mi chiedo cosa ci sto a fare ancora qui… Sono discussioni difficili. Ma alla fine decidiamo sempre di restare. Io mi sento legato alla Bosnia, non posso abbandonare questo posto. Un altro paese non diventerà mai il mio paese”.

(Traduzione di Valentina Freschi)

Questa è una versione ridotta di un articolo pubblicato sul settimanale olandese De Groene Amsterdammer. Questa produzione è stata realizzata con il sostegno di Journalismfund.eu.

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