Alla fine della guerra fredda, il presidente degli Stati Uniti George H.W. Bush rese popolare l’idea che tagliare le spese per la difesa avrebbe stimolato l’economia. “Possiamo raccogliere un autentico dividendo della pace, quest’anno e in futuro, attraverso una riduzione permanente del bilancio della difesa”, dichiarò nel 1992. Il mondo prese nota. In dieci anni, dal 1989 al 1999, gli Stati Uniti ridussero gli investimenti nella difesa dal 6 per cento del loro pil a circa il 3 per cento. Poi arrivarono gli attentati dell’11 settembre 2001 e i conflitti in Afghanistan e in Iraq. Oggi, con l’invasione russa dell’Ucraina, i timori di una guerra tra Stati Uniti e Cina per Taiwan e le tensioni dovute alle ambizioni nucleari dell’Iran, i paesi si stanno armando come non era mai successo dall’inizio del secolo.

Nel 2022 la spesa militare nel mondo è aumentata di quasi il 4 per cento in termini reali, superando i duemila miliardi di dollari, riferisce lo Stockholm international peace research institute (Sipri). In borsa i titoli delle aziende della difesa vanno meglio degli altri. Molti paesi della Nato, in particolare la Germania, prevedono di raggiungere o superare l’obiettivo di spendere il 2 per cento del pil fissato dall’alleanza. Anche altri stanno mettendo mano al portafoglio. Il Giappone ha intenzione di aumentare il bilancio di due terzi entro il 2027, diventando così il terzo paese al mondo per spesa militare.

Oggi in un conflitto è necessaria una quantità enorme di munizioni, e la produzione non riesce a soddisfare la domanda

Secondo le stime dell’Economist questi impegni, se si concretizzeranno, faranno aumentare le spese militari mondiali di più di duecento miliardi di dollari all’anno. Ma potrebbero essere molti di più. Se i paesi che oggi spendono meno del 2 per cento del pil arrivassero a quella soglia e gli altri aumentassero la spesa di mezzo punto percentuale di pil, il bilancio mondiale per la difesa salirebbe di quasi settecento miliardi di dollari all’anno.

I dividendi della pace

L’invasione russa dell’Ucraina “rischia di spazzare via i dividendi della pace di cui abbiamo approfittato negli ultimi trent’anni”, ha dichiarato ad aprile Kristalina Georgieva, direttrice del Fondo monetario internazionale. L’occidente sta inviando un numero crescente di armi, sempre più avanzate, per sostenere la controffensiva ucraina. Gli alleati di Kiev hanno equipaggiato nove brigate corazzate con carri armati moderni e altri sistemi. Presto cominceranno ad addestrare i piloti ucraini a usare gli aerei di fabbricazione statunitense F16.

Tra il 2014 e il 2022, i paesi Nato con una spesa militare di almeno il 2 per cento del pil sono passati da tre a sette. Oggi l’alleanza sostiene che questo dovrebbe essere l’obiettivo minimo, non il tetto massimo, un concetto che sarà probabilmente ribadito al vertice di luglio in Lituania. Alcuni puntano ancora più in alto. La Polonia vuole raggiungere il 4 per cento entro il 2023 e raddoppiare le dimensioni del suo esercito. La Francia parla del passaggio a un’“economia di guerra”.

Ma la corsa agli armamenti si sta intensificando anche dall’altra parte del mondo. Taiwan ha esteso il servizio militare da quattro mesi a un anno. In base al patto Aukus, Stati Uniti e Regno Unito forniranno all’Australia sottomarini a propulsione nucleare e svilupperanno altre armi, tra cui i missili ipersonici. Negli ultimi dieci anni il bilancio della difesa dell’India è cresciuto di circa il 50 per cento, come quello del Pakistan. Nel Medio Oriente, gli stati del Golfo hanno ripreso a comprare armi.

Negli ultimi dieci anni il bilancio della difesa della Cina è cresciuto di circa il 75 per cento in termini reali. Pechino vuole “completare la modernizzazione” delle sue forze entro il 2035 e diventare una potenza militare “di livello mondiale” entro il 2049. Gli Stati Uniti sono convinti che la Cina voglia essere in grado d’invadere Taiwan già nel 2027.

A Washington qualcuno si chiede se l’atteggiamento statunitense sia appropriato in un mondo segnato dalle rivalità. Nonostante alcuni recenti aumenti, dal 2012 il bilancio della difesa del paese si è ridotto di circa il 5 per cento. I tagli sono cominciati dopo la crisi finanziaria del 2007-2009, ma già prima delle gravi tensioni degli ultimi tempi il congresso aveva incaricato una commissione di riconsiderare la spesa nel settore. Nel 2018 la commissione ha raccomandato un aumento dal 3 al 5 per cento in termini reali ogni anno per almeno cinque anni. Nell’ultimo secolo, il vantaggio militare degli Stati Uniti nei confronti dei rivali si è ridotto, osserva l’esperto di strategia Andrew Krepinevich. Durante i due conflitti mondiali e la guerra fredda, gli avversari degli Stati Uniti avevano economie molto più piccole. Non è più così. Oggi il pil della Cina è quasi l’80 per cento di quello statunitense.

Negli anni dopo la guerra fredda, l’idea era che spendere meno per gli eserciti significasse investire di più nelle infrastrutture e nei servizi pubblici e ridurre il debito pubblico o le tasse. A partire dagli anni sessanta il mondo ha liberato in questo modo circa quattromila miliardi all’anno al valore attuale, pari al bilancio mondiale per l’istruzione. Ora il dividendo della pace si sta trasformando in una “tassa di guerra”. Quanto sarà pesante?

Un mondo più pericoloso

Stabilire esattamente chi sta spendendo quanto può essere complicato. Per consentire confronti tra vari paesi di solito la spesa per la difesa si calcola in percentuale del pil e ai tassi di cambio di mercato. In base a questi criteri le spese militari globali sembrano attestarsi intorno al 2,5 per cento, uno dei livelli più bassi dalla fine della guerra fredda. Ma i tassi di cambio di mercato sottovalutano enormemente le dimensioni reali del settore della difesa in paesi come la Cina e la Russia, dove un dollaro basta a pagare molti più armamenti e soldati. Nei prossimi anni, se la rivalità tra le grandi potenze crescerà come previsto, la proporzione aumenterà ulteriormente. In un mondo più pericoloso i paesi si armano perché i loro vicini lo fanno o perché i loro alleati li incoraggiano a farlo.

Spendere di più per le armi solleva diverse domande. Per comprare cosa? Sono soldi sprecati? L’economia globale sarà danneggiata?

La fabbrica di munizioni dell’esercito statunitense a Scranton, in Pennsylvania, Stati Uniti, 12 aprile 2023 (Aimee Dilger, Sopa images/Lightrocket/Getty)

Gli Stati Uniti, di gran lunga il paese che spende di più per la difesa, stanno stanziando somme crescenti per la ricerca e lo sviluppo di nuove armi. Tra queste ci sono i missili ipersonici, per tenere il passo con la Cina e la Russia, armi “a energia diretta” come i laser capaci di abbattere droni e missili, intelligenza artificiale e robotica.

Stanno anche comprando tutte le munizioni che le fabbriche del paese sono in grado di produrre, dai proiettili di artiglieria ai missili antinave. La guerra in Ucraina ha rivelato che in un conflitto è necessaria una quantità enorme di munizioni, e che la produzione attuale non riesce a soddisfare la domanda.

La Cina sta investendo su tutti i fronti, e nel 2022 la sua spesa è cresciuta del 4,2 per cento in termini reali. La composizione del bilancio è opaca, anche per via della “fusione civile-militare” nello sviluppo tecnologico. Ha costruito un complesso sistema di interdizione, con missili capaci di colpire gran parte del Pacifico. Ed è in vantaggio nello sviluppo di alcuni tipi di missili ipersonici, che sono più difficili da intercettare di quelli balistici. La sua marina militare ha già superato per dimensioni quella statunitense.

Stati Uniti, Russia e Cina stanno investendo anche negli arsenali nucleari. Washing­ton sta aggiornando tutte e tre le componenti della sua triade: terrestre, aerea e navale. La Russia sta lavorando allo sviluppo di armi mai viste come il siluro a lungo raggio Poseidon, capace di provocare un’esplosione nucleare sottomarina che creerebbe ondate devastanti. La Cina sta ampliando rapidamente il suo arsenale, che secondo il Pentagono entro il 2035 passerà da poche centinaia a 1.500 testate.

Negli Stati Uniti molti esponenti dell’ala populista legata a Donald Trump vorrebbero tagliare gli aiuti all’Ucraina e i fondi al Pentagono

Gli armamenti sono in cima ai desideri anche di molti paesi più piccoli. La Germania sta comprando nuovi aerei F35 e sistemi di comando e controllo. La Polonia sta spendendo moltissimo per le forze di terra – carri armati, pezzi di artiglieria, lanciarazzi e altri sistemi provenienti da Stati Uniti e Corea del Sud – e per gli aerei da combattimento. Il Giappone sta cercando di procurarsi, tra molte altre cose, missili a lungo raggio per rispondere a un attacco cinese o nordcoreano.

Pressioni inflazionistiche

Questa corsa agli acquisti comporta diversi rischi. Visti i limiti alla produzione, c’è il rischio di un’impennata dei prezzi in un’industria in cui controllarli può essere difficile perché i tempi di sviluppo sono lunghi, i requisiti cambiano e le aziende della difesa sono all’avanguardia della tecnologia, con tutti i costi extra che questo comporta.

Il bilancio della difesa statunitense può essere soggetto ai capricci di politici in cerca di vantaggi per le loro circoscrizioni. Il congresso ha ripetutamente impedito all’aeronautica di disfarsi degli aerei obsoleti. I paesi europei invece non sanno coordinare gli acquisti su grande scala. La società di consulenza McKinsey osserva che l’Europa usa molti più sistemi diversi rispetto agli Stati Uniti: 15 tipi di carri armati contro uno, venti aerei da combattimento contro sette e così via.

Quel che è peggio, l’industria della difesa è particolarmente incline alla corruzione, osserva Josie Stewart di Transparency international, a causa della segretezza che circonda molte delle sue transazioni, della sua importanza per la sicurezza nazionale e della prossimità tra ambienti politici e militari. Un afflusso improvviso di denaro potrebbe peggiorare le cose.

Ma ci sono preoccupazioni più generali secondo cui l’espansione del settore e le industrie che l’alimentano peseranno sull’economia globale, favorendo l’inflazione e rallentando la crescita. L’economista Kenneth Rogoff osserva che “l’esigenza di coprire enormi spese temporanee può facilmente far lievitare il costo del denaro”.

Alcuni timori potrebbero rivelarsi ingiustificati. Prendiamo l’inflazione della difesa negli Stati Uniti, cioè l’aumento dei prezzi degli equipaggiamenti militari. Attualmente è intorno al 5 per cento all’anno, il tasso più alto da decenni. Anche durante le precedenti fasi di riarmo i prezzi sono aumentati bruscamente. Nei primi anni ottanta, quando il presidente Ronald Reagan decise di potenziare le forze armate, il tasso superò di molto quello dell’inflazione generale. Durante la guerra del Vietnam per un breve periodo arrivò al 48 per cento all’anno.

Ma non c’è motivo di temere che la nuova guerra fredda scateni una forte inflazione. Nemmeno i falchi più irriducibili chiedono che la proporzione tra spesa militare e pil torni ai livelli degli anni sessanta e settanta. A meno che non scoppi una guerra aperta tra grandi potenze, difficilmente la spesa militare supererà il 5 per cento del pil globale, e il suo impatto sulla domanda aggregata globale, e quindi sull’inflazione, sarà limitato.

Le somme possono rimanere basse rispetto al passato soprattutto perché la difesa è diventata più efficiente. Gli eserciti moderni richiedono sempre meno soldati, il che permette di ridurre il costo del personale. Il Brasile spende il 78 per cento del suo bilancio in salari, l’occidente meno del 50 per cento. Al posto delle persone ci sono macchine migliori. I sistemi sono più costosi, ma migliorano continuamente. “Oggi è possibile colpire molti obiettivi con un unico bombardiere, mentre in passato era il contrario”, sostiene James Geurts, ex colonnello e consulente della società di investimenti Lux Capital.

I dati ufficiali degli Stati Uniti indicano che tenendo conto dei miglioramenti di qualità, il prezzo di un missile in termini nominali è sceso di circa il 30 per cento rispetto alla fine degli anni settanta. Il prezzo degli aerei è rimasto pressoché invariato. Oggi un paese può spendere cifre relativamente modeste per acquistare capacità militari temibili. Di conseguenza la spesa tende a scendere in rapporto al pil, soprattutto in tempo di pace.

La prossima frontiera

La difesa è riuscita a diventare più efficiente e meno costosa in termini relativi grazie all’evoluzione di quello che il presidente statunitense ed ex generale Dwight Eisenhower aveva definito “complesso militare-industriale”. In passato i dipartimenti della difesa fornivano tecnologia alle industrie civili – pensiamo al sistema gps e a internet. Oggi sempre più spesso succede il contrario.

Le tecnologie per la sicurezza informatica, i droni e i satelliti sono a cavallo tra il mondo civile e quello militare. La SpaceX di Elon Musk ha lanciato in orbita satelliti militari statunitensi, e la sua rete di satelliti Starlink è ampiamente usata dalle forze armate ucraine. Il dipartimento della difesa statunitense ha individuato 14 tecnologie essenziali per la sicurezza nazionale. Dieci o undici di queste sono gestite da aziende private. Colossi tecnologici come Google e la Microsoft contribuiscono alla sicurezza informatica, all’elaborazione dei dati e all’intelligenza artificiale.

Ucraina
Gli arsenali si svuotano
Munizioni da 155 millimetri* inviate dagli Stati Uniti all’Ucraina (*Calibro standard per l’artiglieria dei paesi della Nato) (Fonti: Csis/Financial Times)

Questo riflette un cambio di mentalità delle aziende tecnologiche, che un tempo evitavano il settore militare perché lo consideravano moralmente inaccettabile. Negli Stati Uniti si è sviluppato un intero ecosistema tecnologico-militare, composto da ingegneri in Colorado, funzionari a Washington, esperti del settore aerospaziale a Los Angeles e investitori a San Francisco.

Ma non è solo un fenomeno statunitense. Metà delle più grandi aziende militari e aerospaziali fondate negli ultimi dieci anni ha sede in altri paesi del mondo. “Gli imprenditori non puntano più a fondare l’ennesima startup dei social network”, dice Paul Kwan della società di investimenti statunitense General Catalyst. I grandi investitori della Silicon valley, tra cui proprio la General Catalyst e la Andreessen Horowitz, si stanno interessando alla sicurezza nazionale, nella sua accezione più ampia. E le aziende tecnologiche stanno fiutando l’opportunità. La Palantir, specializzata nell’analisi di grandi quantità di dati, ha creato una nuova piattaforma basata sull’intelligenza artificiale per velocizzare i processi decisionali. La difesa è stato uno dei pochi settori in cui nel 2022 il capitale di rischio è stato più attivo che nel 2021.

Inoltre le aziende militari stanno cercando di adottare lo stesso dinamismo del settore tecnologico. Secondo un rapporto del parlamento britannico i “vecchi sistemi complicano anche operazioni di routine come ordinare un paio di stivali”. Per produrre un nuovo aereo possono volerci dai dieci ai vent’anni. Ma invece di sviluppare nuovi aerei ogni dieci anni, dice Jim Taiclet, amministratore delegato della Lockheed Martin, la sua azienda punta a imitare la Silicon valley, offrendo aggiornamenti dei software per migliorare le prestazioni ogni sei mesi.

Soldi e armi
Rifornirsi costa meno
Spesa militare degli Stati Uniti in proporzione al pil, percentuale (fonte: Sipri)

Una spinta all’innovazione

Le conseguenze fiscali del nuovo boom della difesa potrebbero essere modeste se l’industria diventerà più efficiente. Nei decenni scorsi destinare fondi alla difesa significava sottrarli a tutto il resto: nel 1944 gli Stati Uniti spesero il 53 per cento del pil nelle forze armate. Oggi non è più così. Se il mondo raddoppiasse da un giorno all’altro il bilancio militare senza aumentare le tasse o il debito pubblico, la spesa pubblica dovrebbe essere ridotta di circa il 5 per cento per pareggiare i conti. Non sarebbe facile, ma neanche così difficile.

E le conseguenze sulla crescita? Molti storici sostengono che la spesa militare è un peso per il resto dell’economia. Garantire la sicurezza di un paese ha un grande valore economico. Ma se si compra un missile è probabile che resti inutilizzato e non sia mai impiegato in modo produttivo. Negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale la crescita della produttività subì un rallentamento, perché la forza lavoro si spostò dai campi alle fabbriche di munizioni e ai reparti militari. I limiti alla spesa militare imposti nel dopoguerra al Giappone e alla Repubblica Federale Tedesca, invece, coincisero con enormi aumenti di produttività in entrambi i paesi.

Ma questa è solo una parte della storia. Stati come Israele e la Corea del Sud coniugano un’economia vivace e un settore militare sviluppato. Analizzando i dati della Banca mondiale dagli anni sessanta al 2021 non emerge nessuna correlazione significativa tra la spesa militare e la crescita del pil, né all’interno di un singolo paese nell’arco di molti anni né tra paesi diversi nello stesso anno. In pratica, più armi non significa necessariamente meno pane.

Un aumento delle attività di ricerca e sviluppo in questo campo può stimolare l’innovazione in generale. E anche maggiori investimenti sulle capacità militari possono avere ricadute positive per il resto dell’economia. Secondo un recente studio coordinato da Enrico Moretti dell’università della California a Berkeley, “le attività di ricerca e sviluppo finanziate dal governo in generale – e quelle per la difesa in particolare – aumentano le spese totali di un paese nell’innovazione in una data industria”.

Uno stato deve fare molte cose con i suoi soldi, come assistere gli anziani, combattere il cambiamento climatico e pagare gli interessi sul debito pubblico. Alcuni temono che un aumento delle tasse sia inevitabile o che il costo sarà scaricato sulle generazioni future attraverso l’indebitamento. Molti governi subiranno pressioni per revocare gli impegni sull’aumento della spesa militare. Secondo un rapporto di intelligence rivelato di recente, il primo ministro canadese Justin Trudeau avrebbe detto ai leader della Nato che il suo paese non raggiungerà mai l’obiettivo del 2 per cento. E non è ancora chiaro come il Giappone o la Polonia finanzieranno i rispettivi aumenti delle spese militari.

Prevenire costa meno

L’entità e la durata del boom dipenderanno soprattutto da quello che succederà a Washington. La corrente principale vuole ancora che gli Stati Uniti mantengano il primato e tengano a distanza la Russia e la Cina. Ma molti esponenti dell’ala populista legata a Donald Trump vorrebbero tagliare gli aiuti all’Ucraina e, in alcuni casi, anche i fondi al Pentagono. Un terzo gruppo preferirebbe ridurre l’impegno militare in Europa e in Medio Oriente per concentrarsi sulla Cina. E un quarto è composto da esponenti della sinistra che vorrebbero spendere meno per la difesa e più per il sociale. Il primo gruppo, quello dei falchi internazionalisti, sembra avere la meglio. Fronteggiare gli avversari degli Stati Uniti è uno dei pochi temi su cui c’è un consenso trasversale.

Diversi fattori potrebbero far lievitare la spesa. Una crisi potrebbe sfuggire di mano o perfino costringere gli Stati Uniti a intervenire direttamente, rendendo necessaria una fase di riarmo, come quella decisa dal presidente Harry Truman durante la guerra di Corea. Ma anche senza un conflitto un futuro presidente potrebbe scegliere di potenziare le forze armate. Secondo molti fu l’aumento della spesa militare deciso da Reagan a spingere l’Unione Sovietica verso la bancarotta e a far vincere a Washington la guerra fredda.

In un modo o nell’altro, si prospetta una nuova fase di riarmo. Come ha dichiarato recentemente il capo di stato maggiore Mark Milley al senato statunitense, “prevenire una guerra tra grandi potenze con la preparazione e la deterrenza è molto costoso, ma non quanto combatterne una”. E l’unica cosa che costerebbe ancora di più, ha spiegato, sarebbe perderla. ◆ fas

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Questo articolo è uscito sul numero 1517 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati