Nel 2017 il Nobel per la fisica è andato alla conferma di una previsione fatta 101 anni prima. Nel 1916 Albert Einstein, le cui teorie sulla relatività speciale e generale hanno rivoluzionato le conoscenze degli scienziati su stelle e galassie, aveva previsto che in certe circostanze l’universo stesso può oscillare e contrarsi.

Il fenomeno è causato dalle onde gravitazionali, che sono per la gravità quello che le onde radio o la luce visibile sono per l’elettromagnetismo. Il primo rilevamento risale al 2015. L’osservatorio Ligo, tra lo stato di Washington e la Louisiana, negli Stati Uniti, ha registrato le onde generate dalla collisione di due buchi neri con una massa grande circa trenta volte quella del Sole. La perturbazione prodotta nello spaziotempo aveva una frequenza di circa 150 hertz, o cicli per secondo, e una lunghezza d’onda di circa duemila chilometri.

La scoperta ha segnato l’inizio dell’astronomia delle onde gravitazionali, che per studiare l’universo usa la gravità proprio come l’astronomia tradizionale usa la radiazione elettromagnetica, dalla luce visibile alle onde radio, ai raggi gamma. Il 29 giugno, grazie alla collaborazione di quattro gruppi coordinati da ricercatori di Stati Uniti, Australia, Cina ed Europa, questa disciplina emergente ha fatto un passo da gigante annunciando il possibile rilevamento di nuove onde gravitazionali di frequenza bassissima, che potrebbero aiutare a spiegare alcuni dei più complessi misteri dell’universo.

La maggior parte dei rilevatori di onde gravitazionali sono interferometri. Questi strumenti funzionano dividendo in due un fascio di luce e mandando ogni metà lungo due lunghi bracci perpendicolari. All’estremità dei bracci gli impulsi luminosi vengono riflessi verso la fonte, e lì si riuniscono. Se il tragitto non è interrotto, i fasci riuniti si annullano a vicenda. Se non si annullano significa che una perturbazione – spesso un semplice sisma, ma a volte un’onda gravitazionale di passaggio – li ha distorti.

Lunghezze stellari

Per rilevare le onde gravitazionali servono strumenti enormi. I bracci di Ligo sono lunghi quattro chilometri, quelli di Virgo, un rilevatore europeo che si trova in provincia di Pisa, in Italia, tre chilometri. Più bassa è la frequenza delle onde che si vogliono rilevare, più grande dev’essere l’apparecchio. Le onde con una frequenza che si aggira intorno a un hertz, per esempio, richiedono strumenti più grandi del nostro pianeta. Ecco perché l’Esa, l’Agenzia spaziale europea, sta costruendo la sonda spaziale Lisa, che partirà tra il 2030 e il 2040, e userà un sistema di laser e specchi puntati sulle profondità del cosmo per creare “bracci” lunghi due milioni e mezzo di chilometri.

La recente scoperta, però, riguarda onde con frequenze dell’ordine dei nanohertz, miliardi di volte ancora più basse. Per rilevarle gli astronomi si affidano agli impulsi luminosi creati dalla natura, nello specifico dalle pulsar, stelle collassate che ruotando emettono lampi di luce dalla regolarità metronomica. Se un’onda gravitazionale di passaggio distorce una zona di spaziotempo tra la pulsar e la Terra, alcuni impulsi arriveranno prima o dopo rispetto al previsto. Il monitoraggio di gruppi di pulsar può quindi creare interferometri con bracci di lunghezze interstellari.

Ora i ricercatori hanno individuato proprio queste distorsioni dalla frequenza ultrabassa. Riuscirci non è stato facile. È servita molta pazienza nell’attesa che, anno dopo anno, arrivassero i risultati dei vari osservatori. Alcuni dati usati per lo studio annunciato a fine giugno risalgono a più di venticinque anni fa.

Nessuno dei quattro gruppi di ricerca pensa di avere prove sufficienti per ritenere definitiva la scoperta. I fisici misurano il valore di un risultato mediante l’indice statistico sigma. Il 5, cioè il massimo, indica all’incirca una probabilità su tre milioni e mezzo che il potenziale risultato sia frutto del caso. Presi singolarmente i quattro rilevamenti hanno un sigma compreso tra 2 e 4,6. Unendo i dati, però, si potrebbe superare il sigma 5 nel giro di un anno. “Non ho dubbi, è solo una questione di tempo”, afferma Vivien Raymond, astrofisico di Cardiff che non ha partecipato allo studio.

Secondo Alberto Sesana, dell’università di Milano-Bicocca, la fonte più probabile delle onde sono coppie di buchi neri supermassicci, ciascuno con una massa milioni di volte più grande di quella del Sole. In genere si trovano al centro delle galassie e forse si accoppiano quando queste si scontrano e si fondono. Si prevede che nell’arco di miliardi di anni questi accoppiamenti siano frequenti e producano un “ronzio” gravitazionale di fondo nel cielo. Secondo Sesana “sarebbe la prima prova diretta dell’esistenza in natura di sistemi binari di buchi neri supermassicci”.

Un segnale antico

C’è anche un’altra possibilità, molto meno probabile, ma molto più entusiasmante. L’ipotesi, cioè, che il nuovo segnale risalga agli albori della storia dell’universo, quando il fenomeno noto come inflazione – una breve fase di espansione estremamente rapida delle dimensioni dell’universo – fece risuonare lo spaziotempo.

Se così fosse, sarebbe difficile pensare a una dimostrazione più spettacolare della potenza dell’astronomia gravitazionale.

Essendo molto caldo e denso, si pensa che inizialmente l’universo fosse opaco, impedendo così la propagazione della radiazione elettromagnetica per i primi 380mila anni di vita. Quindi nessun telescopio normale (che si basa sul rilevamento della luce di varie lunghezze d’onda) può captare le tracce di quanto è avvenuto prima. I telescopi gravitazionali non hanno questo limite. Diamo quindi tempo al tempo. Anzi, allo spaziotempo. ◆ sdf

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Questo articolo è uscito sul numero 1519 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati