Sono passati vent’anni dall’inizio degli abusi e delle torture commessi dall’esercito statunitensi sugli uomini rinchiusi ad Abu Ghraib, in Iraq. All’epoca il racconto di quello che succedeva in quella prigione si diffuse rapidamente, ma fu solo dopo la pubblicazione di alcune foto raccapriccianti, nel 2004, che si capì la vera portata del problema. Un detenuto era stato fotografato nudo, incappucciato e collegato a fili elettrici.

Il segretario della difesa Donald Rumsfeld parlò di “mele marce” e disse che i prigionieri iracheni sarebbero stati risarciti. Ma un recente rapporto di Human rights watch indica che Wash­ington non ha mai versato risarcimenti alle vittime delle torture avvenute ad Abu Ghraib e in altre prigioni statunitensi in Iraq. Migliaia di uomini, donne e bambini furono incarcerati dai soldati statunitensi. Secondo un rapporto del Comitato internazionale della Croce rossa basato sulle stime dei servizi segreti statunitensi, tra il 70 e il 90 per cento delle persone detenute nel 2003 erano state arrestate per errore.

Lo scandalo di Abu Ghraib continua a macchiare la reputazione degli Stati Uniti. Oggi l’occidente presenta la sua rivalità con Pechino per il ruolo di leader globale in termini di superiorità morale. Ma a uno sguardo cinico, influenzato dai ricordi di quello che è successo in Iraq, non c’è motivo per fidarsi degli Stati Uniti finché continueranno a rifiutare di affrontare i fatti.

Nel 2022 il Pentagono ha pubblicato un piano d’azione per ridurre i danni ai civili nelle operazioni militari. È una buona notizia, ma il progetto non prevede un meccanismo di compensazione per le azioni passate. I risarcimenti, come forma di assunzione di responsabilità, potrebbero aiutare a evitare crimini futuri e a rimediare ai danni alla reputazione degli Stati Uniti. Ma soprattutto rappresenterebbero un piccolo passo verso la giustizia per i detenuti, che aspettano da vent’anni. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1531 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati