Ana Tijoux ci ha appena regalato un nuovo album, Vida, il primo in dieci anni. E penso che sia una cosa significativa, non solo perché il disco arriva dopo la pausa più lunga nella carriera dell’artista, che era all’apice della popolarità, ma anche perché questa interruzione è coincisa con un grande cambiamento nel panorama musicale. Circa dieci anni fa Spotify è stato lanciato in America Latina. Lo streaming ha preso il sopravvento e ha imposto la tacita regola che è meglio pubblicare spesso nuove canzoni per rimanere rilevanti all’interno dei tirannici algoritmi delle playlist. Certo, nel frattempo Ana Tijoux non è rimasta del tutto silenziosa: ha pubblicato singoli, collaborazioni, è andata in tour e ha perfino scritto un libro. Ma, ricordiamocelo, è stata una delle migliori rapper sulle scene internazionali in un’epoca in cui il rap in spagnolo era un oggetto misterioso alle orecchie del pubblico globale anglofono: erano i giorni prima di Despacito, di Bad Bunny, di Rosalía. Nel bene e nel male, Tijoux sembra aver mancato quel momento di gloria. Con Vida, però, la rapper francese di origine cilena non sembra interessata a riaffermare la sua pretesa al trono o nel competere con le giovani generazioni. Percorre una strada nuova, in cerca di uno spazio sicuro per il pubblico maturo, più interessato a canzoni piene di sentimento con messaggi profondi rispetto a rime buone per un balletto di quindici secondi su TikTok.
Juan Data, Sounds and Colours

Ana Tijoux (Pilar Castro Evensen)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1551 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati