Ognuno ha un punto d’origine nel proprio rapporto con la musica: in alcuni casi si nasce punk o emo per morire diversi. Nei casi che invidio, invece, si resta in prossimità di quel punto, procedendo per variazioni minime e inseguendo riverberi familiari che diventano un’identità musicale. Sentendo il primo brano di Bloom, il disco dei Tiger! Shit! Tiger! Tiger! uscito per To Lose La Track (già scrivere questo nome mi scaraventa in uno spazio consolatorio) mi chiedo da dove vengo io. O meglio, me lo ricordo. Il brano s’intitola Memory ed è un’immersione totale nelle acque che stavano sulle copertine dei dischi anni novanta, tra Nirvana e Slint, quando ti tuffavi che eri una cosa solissima al mondo e poi nello scintillio dell’acqua intravedevi qualcuno che ti era simile. E la malinconia diventava una forma bella di resistenza.

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Nel caso dei Tiger! Shit! Tiger! Tiger!, attivi dal 2006 e con molte incursioni americane nel loro destino (si veda l’artwork curato da Keeley Laures, una fioritura che si scioglie), l’idea di resistere ha più di un significato: innanzitutto c’è l’integrità di presentare canzoni dai suoni analogicamente torbidi ma precisi dal punto di vista sentimentale. Forse uno dei difetti della produzione digitale è aver invertito il rapporto: tutto chiaro in superficie, e una grande confusione interiore. C’è solo contentezza quando per un attimo si torna a contatto con il proprio punto d’origine, e Bloom non solo permette questa esperienza, ma fa sentire una cosa rarissima di questi tempi: la fiducia. Verso la band che suona, e per come lo fa. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1551 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati