Per quale motivo il calciatore Nizar Issaoui, padre di famiglia di 35 anni, il 10 aprile 2023 si è ucciso dandosi fuoco davanti al commissariato di Haffouz, una cittadina della regione di Kairouan, nella Tunisia centrale? Perché pensava di non avere altra scelta se non trasformarsi in torcia umana? Credeva che morire in quel modo sarebbe stato visto come un atto di coraggio e di verità, lasciandogli l’ultima parola? Con il suo gesto, messo in scena e filmato da lui stesso fino al rogo finale, voleva scatenare una rivolta popolare, di cui sarebbe stato l’eroe? Due mesi dopo, il video è ancora online e fa venire i brividi. La spiegazione data da Issaoui, un colosso di più di un metro e novanta, con i capelli e la barba arruffati, e la voce rotta, sembra grottesca. Nella registrazione parla di una disputa sul prezzo di un chilo di banane, una questione che avrebbe spinto la polizia ad accusarlo di terrorismo. “Terrorismo per delle banane!”, urla, denunciando l’ingiustizia prima di far scattare l’accendino. A quel punto si sentono solo grida di panico e di paura. Issaoui, tra le fiamme, lascia cadere il telefono, che un poliziotto raccoglie e spegne, come un ciak finale.

Ricoverato prima all’ospedale di Kairouan, in seguito al centro di traumatologia e grandi ustionati di Ben Arous, vicino a Tunisi, Issaoui è morto tre giorni dopo.

Basma Issaoui mostra una foto del marito morto. Haffouz, 19 giugno 2023  (Nicolas Fauqué, imagesdetunisie.com)

Il 14 aprile ai suoi funerali ha partecipato una folla di uomini e donne che scandivano, con il pugno alzato: “Con il nostro sangue e con tutta la nostra anima, ti resteremo fedeli, Nizar!”. Ci sono stati scontri con la polizia. Poi la vita ha ripreso il suo corso, con la sola differenza che nessuno a Haffouz dice: “Nizar si è ucciso”. Dicono: “Loro lo hanno ucciso”.

“Loro”, cioè la polizia. “Loro”, il sistema corrotto, ingiusto, arbitrario, che se ne frega delle leggi e schiaccia i cittadini. “Loro”, lo stato al collasso, cattivo, ingrato, che non lascia altra scelta se non le fiamme a chi prova a farsi sentire.

Nizar Issaoui non si è impiccato nel suo garage né si è buttato in fondo a un pozzo, ma si è dato fuoco. Da quando lo fece, il 17 dicembre 2010, Mohamed Bouazizi – un giovane venditore ambulante diventato un eroe nazionale, la miccia della rivolta popolare che portò alla caduta del dittatore Zine el Abidine Ben Ali – nessuno osa dire che questo modo di uccidersi non abbia un significato politico. Centinaia di persone hanno emulato Bouazizi, e il movimento continua.

La vedova di Nizar Issaoui ci riceve alcune settimane dopo la tragedia in una casa povera e disordinata.

“Occupo una casa del comune”, confessa Basma Issaoui con un sorriso stentato. “ Dopo la morte di Nizar, ho capito che dovevo lasciare il posto in cui abitavamo. Non potevo permettermi di pagare neanche un mese d’affitto. Ho visto questa casa vuota, così ho preso i bambini, delle coperte, due valigie, ed eccomi qui. Lo stato ha creato quattro orfani, ce lo deve!”. Darsi fuoco non è un suicidio qualunque: è un atto di accusa e una presa di potere.

Una buona reputazione

Basma Issaoui ci racconta la sua storia sotto lo sguardo severo di un fratello, di un cugino e di un amico del defunto, di sua madre, sua sorella e, a volte, dei figli. “Il nostro è stato un matrimonio d’amore”, ricorda. Si conobbero da studenti e nei primi anni di matrimonio vissero con poco dai genitori di lui. Lei lavorava in una scuola media, finché il marito non cominciò una carriera da calciatore professionista. Grombalia, Tozeur, Monastir. “Varie squadre lo volevano: era diventato il secondo miglior marcatore della Tunisia. Anche la nostra vita migliorò, nacque il nostro primo figlio, avevamo una piccola casa. Credo che fossimo felici”.

Nizar Issaoui si fece conoscere e nel 2014 fu perfino selezionato per la nazionale. Era pazzo di gioia. Ma alla fine il suo nome, senza una ragione ufficiale, fu cancellato dalla lista dei convocati. Il motivo erano forse i mesi passati in prigione (dove peraltro si era diplomato) dopo la condanna per “turbamento dell’ordine pubblico”? Lui prese molto male l’esclusione.

“La nostra vita cambiò”, continua la moglie. “Nizar cadde in depressione, passò sei mesi a piangere e a occuparsi del bambino. Poi nacque il nostro secondo figlio e lui cercò un lavoro. Ottenne dei contratti con squadre minori e questo gli fece bene. Lui viveva di calcio! Arrivarono altri due figli, si riprese, aveva una buona reputazione in città, era sempre pronto a difendere gli altri”.

Alla fine di marzo ha approfittato di qualche giorno di congedo per stare a casa e prepararsi al mese sacro del Ramadan. Il 1 aprile al mercato ha comprato delle banane a cinque dinari (1,5 euro) al chilo, il prezzo fissato dal governo per contenere l’inflazione. Qualche minuto dopo un amico gli ha detto che lui le aveva pagate il doppio dallo stesso venditore. Issaoui è tornato al banco e ha insultato il commerciante che tutti sapevano essere in buoni rapporti con la polizia: “Ladro! Non rispetti la legge e imbrogli le persone!”. È scoppiata una rissa e il mercato è esploso. Issaoui e suo fratello erano scatenati.

Dopo aver saputo che il commerciante l’aveva denunciato, il calciatore è andato al commissariato per farlo a sua volta. Ma la polizia non ha registrato la sua denuncia. Esasperato, Issaoui ha insultato tutti ed è tornato a casa. Più tardi è venuto a sapere che il commissariato aveva chiesto rinforzi per arrestare lui e suo fratello con l’accusa di “associazione a delinquere” (lui l’ha interpretata come “legata al terrorismo”), ma è riuscito a fuggire mentre i poliziotti arrestavano suo fratello.

È rimasto nascosto per una settimana. Gli sono arrivate voci secondo cui la polizia sarebbe riuscita a condannarlo all’ergastolo. È stato preso dal panico, convinto che non avrebbe avuto possibilità di spiegarsi, che nella Tunisia di oggi la giustizia è solo una parodia e la corruzione dei poliziotti endemica. “Si sentiva perseguitato”, racconta la moglie. “Rifiutava l’idea di andare ingiustamente in prigione e ripeteva: ‘Devo trovare un modo per farmi sentire!’”. È tornato a casa la notte tra il 9 e il 10 aprile.

Segno di purezza

La mattina del 10 aprile, mentre era al lavoro, Basma Issaoui ha letto sul profilo Facebook del marito un messaggio inquietante: “È terribile vedere i propri diritti violati davanti agli occhi una, due, tre volte, in nome della legge, e non poter parlare. È terribile sentirsi straniero nel proprio paese. Oggi mi condanno da solo. Io, giudice Nizar Issaoui, condanno l’imputato Nizar Issaoui alla morte per immolazione. Eseguirò la mia pena oggi stesso, maledetto stato di polizia!”. Basma Issaoui si è precipitata a casa e l’ha supplicato di rinunciare. Ma lui non ha voluto sentire ragioni ed è andato al commissariato.

“Il capo della polizia non aspettava altro”, afferma la donna. “Voleva vedere fino a dove si sarebbe spinto. Avrebbero potuto fermarlo o prendere un estintore, quando hanno visto che si versava addosso la benzina. Invece l’hanno lasciato fare. Erano contenti quando hanno visto le fiamme” (il capo della polizia, intervistato in seguito nel suo ufficio, si rifiuta di commentare la vicenda, in nome del segreto istruttorio).

Il 28 aprile Issaoui è andata nel luogo in cui il marito si era dato fuoco due settimane prima portando con sé i suoi quattro figli, che gridavano e cantavano

Basma Issaoui aggiunge, con voce dolce e sguardo inflessibile: “Mi vendicherò”. Poi continua il suo racconto. Qualche giorno dopo i movimentati funerali del marito e il trasferimento nella casa popolare, è arrivato un ufficiale giudiziario per notificarle lo sfratto. Lei si è precipitata in comune con il figlio maggiore per chiedere che la casa avesse acqua ed elettricità. “Se non ci date la luce farò come il mio papà”, ha affermato il bambino, di nove anni. Ma la situazione non è cambiata e le minacce di espulsione sono diventate più concrete. Issaoui è tornata in comune con i vestiti impregnati di benzina. “Va bene, non ti cacceremo via”, le hanno assicurato. Ma l’elettricità non è arrivata.

Il 28 aprile Issaoui è andata nel luogo in cui il marito si era dato fuoco due settimane prima portando con sé i suoi quattro figli, che gridavano e cantavano: “Dove sei presidente? La tua polizia ci ha reso orfani”.

La scena, filmata, è straziante. Per Basma Issaoui è una conseguenza logica: “Mio marito voleva far rispettare la decisione del presidente tunisino Kais Saied, che aveva fissato i prezzi di alcuni prodotti. E nessuno onora la sua famiglia? Nessuno ci fa le condoglianze?”.

Basma Issaoui è indignata. Per lei l’immolazione con il fuoco è un segno di purezza, non un fallimento né un gesto di follia. “È il mezzo per far sentire la propria voce in questo paese, che sprofonda nella corruzione e nella disperazione. Un paese in cui le persone si battono contro le decisioni arbitrarie, per avere farina o pane”, spiega. Gli amici del marito annuiscono con decisione. E lei prende coraggio: “Se solo potessi portare i miei figli su una delle barche che attraversano il Mediterraneo! Farei qualunque cosa per fuggire dalla Tunisia che cola a picco. Ma come faccio? Il mio stipendio di quattrocento dinari (118 euro) non basta a sfamare i miei figli. Sono inutile, forse sarebbe meglio seguire l’esempio di Nizar. Forse lo stato aiuterà degli orfani, soprattutto se sono diventati orfani per colpa sua!”.

Dopo queste parole, cala il silenzio. Aspettiamo che la madre, la sorella, il fratello, il cugino, seduti su un materasso o per terra, dicano qualcosa, si oppongano, la rassicurino. Ma nessuno apre bocca. E lei continua: “Il fuoco è già dentro di me, brucia nel mio cuore”. Allora proviamo a parlare dei figli. Non sono già abbastanza traumatizzati per infliggergli un’altra morte? Non è meglio rompere con questa ossessione per il fuoco?

Basma Issaoui con i figli. Haffouz, 19 giugno 2023 (Nicolas Fauqué, imagesdetunisie.com)

“Il concetto del bruciare è onnipresente in Tunisia”, dice Issaoui. “Per la traversata in barca o per l’immolazione si usa la stessa parola: harka, bruciare. Dal mare o dal fuoco in questo paese si finisce sempre bruciati”. Fa un sorriso triste. “Questa mattina uno studente di sedici anni si è cosparso di benzina piangendo davanti al commissariato. Mi rendo conto che fuori della Tunisia possa sembrare incomprensibile, ma qui non sorprende più nessuno. In realtà penso che tutti abbiamo bisogno di farci curare”.

Un fallimento per tutti

Dal 2016 la Tunisia non pubblica statistiche ufficiali sulle persone che si danno fuoco. Fino a quel momento, i casi erano anche cento all’anno. Ma non parlare del problema non lo fa scomparire. Ogni settimana ci sono uno o due tentativi d’immolazione. Nella maggior dei casi non si dice niente, al massimo esce qualche riga su un giornale locale. “È un altro aspetto della tragedia”, osserva la politologa Khadija Mohsen-Finan. “Chi si dà fuoco vuole attirare l’attenzione, ed è un completo fallimento. La disperazione è talmente diffusa nella nostra società che non facciamo più caso a questa violenza estrema”. Il paese va così male, spiega Mohsen-Finan, che l’avvilimento è generalizzato: “Nessuno ha più fiducia in chi governa, non si vede un senso, una direzione, un futuro. Non c’è più un’azione collettiva, solo una massa di individui che rinunciano. La rivolta continua attraverso la distruzione di sé”.

Una distruzione radicale (nell’immaginario collettivo non resta niente dopo il fuoco) per “un’accusa radicale”, sottolinea Nedra Ben Smail, psicoanalista a Tunisi. “L’immolazione contiene un’accusa. Ci dice: ‘È un omicidio, mi avete ucciso; lo stato incapace, perverso, sadico mi ha ucciso’. Esprime scontento e sofferenza, tutto quello che non si può dire con le parole, perché nessuno ascolta. E ognuno può identificarsi”.

In esilio a Parigi l’ex presidente della repubblica (2011-2014) Moncef Marzouki parla controvoglia dell’argomento: “Mi tocca personalmente. Sono un medico e so che darsi fuoco è la peggiore delle morti. Perché allora questa sofferenza assoluta? Perché questa follia omicida contro se stessi, contro la società, contro Dio, che vieta il suicidio in modo assoluto? Non lo capisco e questo genera in me sensi di colpa, vergogna, rabbia. Un popolo e un paese sprofondano nel caos più assoluto. Che fallimento per tutti i tunisini!”.

Effetto Werther

Mehdi Ben Khelil, medico legale del centro di traumatologia e grandi ustionati di Ben Arous, si è interessato subito al problema e fa parte di un piccolo gruppo di specialisti che nel 2016 pubblicò uno studio comparativo sulle immolazioni prima della rivoluzione (tra il 2006 e il 2010) e dopo (tra il 2011 e il 2015). La conclusione era sorprendente: dal 2011, il numero dei suicidi si era moltiplicato per 1,8. Quello delle immolazioni con il fuoco era più che triplicato, diventando il secondo metodo più usato per uccidersi, dopo l’impiccagione. In passato venivano prima l’annegamento e l’ingestione di sostanze tossiche. E la tendenza si è consolidata. Secondo Ben Khelil, a sette anni dal primo studio, le cifre sono sostanzialmente invariate (sono diminuite solo durante il lockdown per il covid-19), dimostrando che la pratica si è radicata nei costumi e nella cultura.

All’inizio ci fu il suicidio, ampiamente ripreso dai mezzi d’informazione, di Mohamed Bouazizi, entrato nella storia per essere la scintilla che accese la rivoluzione tunisina e le primavere arabe. Nelle settimane successive ci furono molte immolazioni, con vittime dal profilo simile: uomini sulla trentina, per lo più celibi, disoccupati o con lavori precari, meno affetti da problemi psichiatrici rispetto al passato, ma profondamente segnati da un sentimento di sconforto e di ingiustizia che li portava a suicidarsi davanti ai luoghi che rappresentavano l’autorità o lo stato.

“Abbiamo pensato a un effetto Werther”, afferma il medico facendo riferimento al fenomeno dei suicidi per imitazione, come quelli avvenuti in Germania dopo la pubblicazione del romanzo di Goethe I dolori del giovane Werther nel 1774. “Ma l’effetto Werther, che spiega la glorificazione di Bouazizi, con un suo ritratto nella piazza del suo paese, gli aiuti economici alla sua famiglia, le strade rinominate in suo onore, avrebbe dovuto durare solo qualche mese. Ormai sono passati dodici anni”, fa notare Ben Khelil.

Allora qual è il motivo? Il medico alza le spalle. Sappiamo, dice, che la ricerca di gloria o di riconoscimento, come quelli ottenuti da Bouazizi, non sono più la ragione principale: “Darsi fuoco è ormai un mezzo di espressione. Non ricevo risposta se scrivo a un ufficio pubblico? Mi ignorano quando mi presento a uno sportello? Sono trattato con disprezzo da un poliziotto? Se mi do fuoco, qualcuno mi ascolterà”.

Il fattore determinante

È quello che hanno fatto Nabil Kassabi, 37 anni, e Seifeddine Jablaoui, 30 anni, che hanno cercato di suicidarsi dandosi fuoco nel 2019 e nel 2020 a Haffouz, ma sono sopravvissuti alle ustioni, peraltro gravissime. Kassabi, senza titoli di studio, sposato con due figli piccoli, non trovava lavoro, se non qualche impiego saltuario in un cantiere di Sousse. Ogni settimana si presentava in municipio per chiedere un impiego, sussidi per pagare l’affitto di duecento dinari o per sfamare i figli, ma tornava a casa deluso, umiliato, senza speranze. “Non dormivo più. Ero divorato dall’angoscia. Non vedevo altra soluzione che il suicidio”.

“La glorificazione di quel gesto è già costata decine di vite umane. Facciamola finita. Chi pubblica i video online dovrebbe essere condannato”

Così ha comprato una tanica di benzina in una stazione di servizio, è entrato in municipio e si è versato addosso il liquido urlando agli impiegati: “Uscite! Ora accendo il fuoco. Vi do cinque minuti!”. Sono usciti tutti. Ha chiuso la porta e acceso l’accendino. “Il dolore era lancinante e l’odore della pelle bruciata era così simile a quello della carne che volevo fermarmi. Ho avuto paura di morire. Sono corso verso la porta, ma la corrente d’aria ha alimentato le fiamme e sono svenuto in cima alle scale”.

È stato portato all’ospedale di Kairouan, dove il governatore della regione è andato a trovarlo e pare che abbia esclamato: “Com’è possibile che non sia stato trovato un lavoro a questo pover’uomo?”. Ma l’interesse per il suo caso è durato solo il tempo della visita ufficiale. Le cure, invece, sono state lunghe e dolorose.

Raccontando la sua storia Seifeddine Jablaoui è più arrabbiato che triste. È diffidente, aggressivo, ce l’ha con il mondo intero e soprattutto con la polizia, di cui denuncia il dispotismo e la corruzione. Ha studiato all’accademia di belle arti di Cartagine, ha sposato una statunitense e, per ragioni poco chiare, si è ritrovato in carcere per un mese, senza processo, in mezzo a criminali pericolosi. Un’esperienza che l’ha distrutto.

Un mese dopo essere uscito di prigione ha pubblicato su Facebook un video delirante in cui parlava del suo dolore e poi si è dato fuoco in una piazza di Haffouz. Trasportato in gravissime condizioni a Kairouan e poi a Ben Arous, ha rischiato l’amputazione degli arti. Ha dovuto tenere le fasciature per più di due anni. Non può lavorare, si sottopone periodicamente a operazioni chirurgiche o a trattamenti laser, e rimugina con amarezza.

Di recente gli hanno rubato un anello e lui è andato al commissariato per sporgere denuncia. Ma il padre del ladro era un amico dei poliziotti e così lui è stato deriso e minacciato. Allora Jablaoui ha chiamato la madre e la sorella, e davanti al commissariato si sono versati tutti e tre della benzina addosso. “Questo ha reso gli agenti più disponibili”, dice Jablaoui, mentre la sorella ride: “Guardateli! La scena è stata filmata, ce l’ho sul telefono. Eravamo pronti a morire per farci ascoltare. In quei momenti si pensa solo alla morte”. Il procuratore, temendo uno scandalo, ha arrestato il ladro.

Nedia Ben Slama, psicologa clinica e psicoterapeuta, ha seguito a lungo quelli che chiama “aspiranti suicidi per immolazione” e gli ha dedicato uno studio. Quando aveva 27 anni ha cominciato a lavorare nel reparto grandi ustionati di Ben Arous, che tra il 2011 e il 2019 ha accolto 692 persone che si sono date fuoco (il 45 per cento di loro è sopravvissuto). È stata lì tredici anni e ne è uscita “sfiancata”.

C’era quando Mohamed Bouazizi fu ricoverato, nel dicembre 2010. Quando l’allora presidente Zine el Abidine Ben Ali andò a fargli visita davanti agli obiettivi dei fotografi. Era lì quando nelle settimane successive arrivarono gli emuli di Bouazizi, che occupavano fino al 50 per cento dei posti letto disponibili. Come fattore determinante, la dottoressa cita la parola hogra, invocata dalla maggior parte di loro. Indica il sentimento di essere disprezzati, ignorati, di non esistere agli occhi degli altri. “Come se la persona che si dà fuoco urlasse: ‘Hanno spento la mia esistenza. Allora mi accendo e mi brucio. Esisterò come torcia umana’”, spiega.

Ben Slama insiste anche sull’aspetto aggressivo del gesto: “Obbligando gli altri ad assistere a una scena di estrema violenza, chi si immola desidera far soffrire il pubblico e lo attacca a modo suo”. Bruciando la sua pelle in questa società da cui si sente rifiutato, scompare senza volto.

Possono esserci delle predisposizioni? Oltre al profilo sociale, la dottoressa parla di relazioni interpersonali conflittuali, non esclude problemi mentali (di solito non diagnosticati) e osserva delle difficoltà affettive nell’infanzia.

Le ricerche sono ancora poche, ma il fenomeno è così intimamente legato alla rivoluzione tunisina e influenza così profondamente la società, da aver ispirato due recenti film: Askhal di Youssef Chebbi e Harka di Lotfy Nathan. Amen Allah Messadi, responsabile del reparto di rianimazione degli ustionati di Ben Arous, non apprezza questi film, ed è irritato dalla nostra inchiesta: “Ci sono molte persone fragili, borderline e in difficoltà, che potrebbero farsi idee sbagliate. Celebrare quel gesto è già costato decine di vite umane. Facciamola finita. Chi pubblica i video online dovrebbe essere condannato per aver messo in pericolo la vita degli altri”.

Messadi lavora tutti i giorni, insieme a tre medici e a otto tirocinanti, che spera non partano per l’Europa, come hanno già fatto molti suoi collaboratori. Mancano aiuti e medicinali, quindi ha creato un’associazione per pagare le cure ai pazienti più poveri. Lo sconforta vedere che il governo, le autorità religiose e i mezzi d’informazione non facciano di più per dissuadere le persone. “Quando si dirà ai tunisini che non è questa la soluzione? Che la morte per ustioni è la più atroce? Che quando si sopravvive le sofferenze sono infernali, le terapie lunghe, costose, dolorose e che le conseguenze sono molte e pesanti, anche per i familiari? E, infine, che le ragioni che hanno portato a quel gesto non scompaiono, ma addirittura si aggravano?”.

Seifeddine Jablaoui lo sa bene. Così come lo sanno Nabil Kassabi e Basma Issaoui. Ma tra le tenebre in cui sta sprofondando il loro paese non vedono nessuna luce. “O si muore o si parte”, dice Jablaoui. Il fuoco continua a bruciare. ◆ adr

Da sapere
La traversata più pericolosa

◆ Almeno 41 persone sono morte in un naufragio al largo di Lampedusa avvenuto il 3 agosto 2023, il quarto in pochi giorni. L’imbarcazione su cui viaggiavano era partita da Sfax, in Tunisia, e dopo sei ore si era ribaltata a causa delle onde alte. Lo hanno raccontato i quattro sopravvissuti – provenienti da Guinea e Costa d’Avorio – arrivati il 9 agosto nell’isola siciliana. Un altro naufragio avvenuto il 12 agosto al largo delle coste tunisine ha provocato due morti (un uomo tunisino e un bambino) e cinque dispersi; tre giorni dopo cinque tunisini sono morti in un nuovo naufragio. Nel 2023 più di 1.800 persone hanno perso la vita nella traversata del Mediterraneo centrale, tra le rotte migratorie più pericolose al mondo. Secondo il ministero dell’interno italiano nei primi sette mesi dell’anno sono sbarcati in Italia 93.754 migranti, più del doppio di quelli arrivati nello stesso periodo del 2022. La stragrande maggioranza è partita dalle coste tunisine, che hanno superato quelle libiche come punto di partenza verso l’Europa. Negli ultimi mesi in Tunisia sono aumentate le aggressioni contro i migranti provenienti dall’Africa subsahariana. Afp, L’Essenziale


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Questo articolo è uscito sul numero 1525 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati