Una mattina dello scorso inverno, alle studenti di una scuola secondaria femminile di Teheran è stato detto che quella settimana sarebbero arrivati alcuni funzionari del ministero dell’istruzione per ispezionare le aule e verificare il rispetto del codice di abbigliamento: in particolare, l’uso del magh­naeh, la mantellina con il cappuccio che negli anni successivi alla rivoluzione iraniana è diventata obbligatoria per le alunne. Durante il pranzo un gruppo di ragazze si è riunito nel cortile della scuola. Una tredicenne, che chiamerò Nina, si è fatta strada tra le altre per sentire meglio. In quel momento le proteste di massa contro il governo infuriavano in tutto il paese, e il rifiuto di indossare il velo era diventato un simbolo del movimento. Una studente più grande ha detto alle altre che era arrivato il momento di unire le forze e prendere posizione.

La mattina dopo sono arrivati gli ispettori. Le insegnanti hanno chiesto a sei alunne di ogni anno di riunirsi nel cortile. Nina non era tra loro, ma conosceva il piano; era seduta al suo banco, scarabocchiava su un foglio, con il cuore che martellava per l’agitazione. Fuori la luce del sole invernale gettava ombre sui muri di mattone consunti. Una delle studenti in cortile ha sollevato il braccio, il segnale concordato la sera prima su un gruppo WhatsApp, e le altre si sono tolte il velo e lo hanno gettato a terra. Per un attimo nessuno ha detto nulla. Poi è stato ordinato alle ragazze di tornare in classe. L’insegnante di Nina ha alzato lo sguardo con sorpresa quando le sue studenti sono rientrate, con la testa scoperta e rosse in viso, ma non ha fatto commenti. Il giorno dopo quasi tutte le ragazze si sono presentate a scuola senza il velo.

Fonte di energia

Fin dall’inizio le donne sono state al centro delle manifestazioni che hanno travolto l’Iran nel 2022, la più grande protesta contro lo stato dopo la rivoluzione del 1979. Le iraniane hanno scalato le classifiche dei libri più venduti, hanno prodotto film e opere d’arte acclamate, e negli ultimi anni hanno superato gli uomini tra i laureati nelle discipline stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Eppure sono anche sottoposte a una delle forme più rigide di discriminazione di genere imposta dallo stato. In Iran le donne hanno meno diritti degli uomini in materia di matrimonio, divorzio, custodia dei figli ed eredità. La loro deposizione in tribunale vale la metà di quella di un uomo, e questo le rende più vulnerabili allo stupro, alle molestie sessuali e ad altre forme di violenza di genere. Per gran parte degli ultimi quarant’anni le donne hanno dovuto seguire un severo codice di abbigliamento – di solito un velo sulla testa e un ampio mantello, o manteau – il cui rispetto è imposto dalla polizia religiosa del paese.

Nel settembre 2022 migliaia di persone sono insorte dopo l’uccisione di Mahsa Jina Amini – una giovane morta mentre era in custodia della polizia perché accusata di aver trasgredito quel codice – e sono rimaste nelle strade, chiedendo la fine della tirannia clericale. Le studenti sono emerse come un’inaspettata fonte di energia ribelle. A ottobre ha circolato online il video di una folla di adolescenti che a Teheran fermavano il traffico, strappavano le foto della prima guida suprema dell’Iran, Ruhollah Khomeini, e scandivano lo slogan “morte al dittatore”. Scene simili si sono ripetute in tutto il paese, con gruppi di ragazze e giovani donne che marciavano per le strade agitando i loro veli in aria.

Un pomeriggio dello scorso autunno mentre camminavo su via della Rivoluzione, nel centro di Teheran, ho visto le alunne che uscivano dall’Anushiravan Dadgar, una delle prime scuole superiori femminili dell’Iran, con il capo scoperto. Chiacchieravano e ridevano, come se essere una studente iraniana con il sole che scintilla tra i capelli fosse la cosa più naturale al mondo.

Tinte ed extension

La scuola di Nina si trova su un’ampia strada fiancheggiata da platani in un quartiere borghese di Teheran. Lei e la maggior parte delle sue compagne vengono da famiglie progressiste, con genitori consapevoli del fatto che alcuni aspetti dell’istruzione iraniana – le lezioni sui “doni celesti”, che elencano le virtù degli imam sciiti, o le gite ai santuari dedicati a figure religiose minori – possono far storcere il naso. Eppure le lamentele di Nina di solito provocavano una risposta ferma da parte dei suoi genitori. “Forse non tutto quello che stai imparando è di tuo gradimento”, ricorda che le diceva sua madre. “Ma questa è la scuola nella società in cui vivi, e non puoi ricevere un’istruzione senza seguire le regole”.

Mentre le manifestazioni continuavano, le compagne di Nina si sono rifiutate d’indossare il velo per la foto annuale della scuola e di conseguenza non sono state chiamate per lo scatto. Una ragazza si è presentata in classe con i capelli tinti di rosa; Nina ha saputo che un’altra è stata sospesa dopo essersi fatta le extension biondo platino. Le autorità scolastiche hanno minacciato le studenti di mettergli voti bassi in condotta, e con l’intensificarsi delle proteste hanno annullato le riunioni del consiglio dei genitori, rendendo difficile per le famiglie verificare quello che raccontavano le figlie.

Un giorno la scuola ha organizzato un incontro con le studenti per negoziare una soluzione: se avessero accettato d’indossare il velo intorno al collo, la scuola non avrebbe più preteso che si coprissero i capelli. “È stata una vittoria”, dice Nina.

Ma non è servita a calmare gli animi. Le studenti scarabocchiavano gli slogan della protesta sui banchi e sui muri dei bagni: “donna, vita, libertà” e “morte al dittatore”. Nel cortile dell’istituto alcune alunne hanno creato una “Repubblica islamica modello”. Una ragazza ricopriva il ruolo della guida suprema, un’altra quello dell’inutile presidente, e il resto della classe si coalizzava contro di loro.

Una delle insegnanti di Nina ha consolato le alunne, raccontando che lei e sua figlia indossavano il velo solo perché erano costrette a farlo

Dopo che a novembre un bambino di nove anni è stato ucciso a colpi di arma da fuoco nella cittadina di Izeh (i mezzi d’informazione di stato hanno dichiarato che a sparargli sono stati i terroristi, ma in molti sospettano che i colpevoli fossero le forze di sicurezza), una delle compagne di classe di Nina ha scritto sulla lavagna: “Nel nome del Dio degli arcobaleni”. Citava il verso di una poesia che il bambino aveva pronunciato in un video per un progetto scolastico, al posto del tradizionale “Nel nome di Dio”. È stata convocata un’altra riunione. Alle studenti è stato detto di non ficcare il naso negli affari degli altri, racconta Nina, e che quello che succedeva fuori delle mura scolastiche non doveva avere alcuna importanza per loro.

Una delle insegnanti di Nina ha consolato le alunne, raccontando che lei e sua figlia indossavano il velo solo perché erano costrette a farlo. Ha detto anche che ricevere un’istruzione è il modo più sicuro per garantirsi un futuro migliore. Nel frattempo la bibliotecaria della scuola ha chiesto che le ragazze scrivessero dei ta’ahod, dichiarazioni in cui ammettevano di aver infranto le regole e chiedevano scusa. Tre ta’ahod portavano all’espulsione. Nina ha notato delle telecamere installate nelle aule e nei corridoi. “Continuano a dirci che il futuro del paese è nelle nostre mani”, dice. “Ma rendono illegale parlare di quello che succede nel paese”.

Quell’inverno alcune compagne di classe di Nina hanno staccato dalla parete i ritratti di Khomeini e del suo successore, Ali Khamenei. Li hanno scarabocchiati con la penna, e l’inchiostro accumulandosi ha trasformato le espressioni accigliate dei due ayatollah in chiazze nere. A quel punto lo stato aveva in gran parte soffocato le proteste. Khamenei ha partecipato a una cerimonia di passaggio, che celebra il raggiungimento dell’età in cui diventa obbligatorio rispettare i dettami della religione, e ovunque si vedevano foto della guida suprema circondato da alunne con il chador (un velo che copre tutto il corpo). Ma anche se l’attenzione nella capitale era rivolta a questioni più materiali, come l’inquinamento soffocante e la carenza di carburante, Nina aveva la sensazione che lei e le sue coetanee affrontassero uno scontro diretto con lo stato. “Vogliamo che questo governo se ne vada”, le ha detto una compagna. “Non vogliamo questo cattivo governo”.

Tutte a scuola

La storia dell’istruzione femminile in Iran è profondamente politica. Il primo sovrano della dinastia Pahlavi, lo scià Reza, leader militare che prese il potere nel 1925, portò le donne al centro del suo progetto per modernizzare l’Iran: vietò l’uso del velo in pubblico e ammise le donne nelle università. Durante il regno di suo figlio, lo scià Mohammad Reza, le donne ottennero il diritto di voto, entrarono in parlamento e acquistarono molti più diritti nel matrimonio (anche se rimasero alcune restrizioni, come l’obbligo per le mogli di ottenere il permesso dei mariti per viaggiare all’estero). Allo stesso tempo lo scià imprigionò migliaia di dissidenti che si opponevano al suo dominio autoritario, e alcuni furono torturati e uccisi. Il femminismo di stato cominciò a legarsi alla repressione di stato e all’occidentalizzazione forzata. Nel 1979 iraniani di diverse estrazioni si unirono per spodestare lo scià. Alcune attiviste trasformarono il chador nero e il velo in simboli della ribellione. “C’era una febbre rivoluzionaria”, mi dice Haleh Esfandiari, che ha fondato il Middle East program del Woodrow Wilson center, a Washington. “Uno dei modi che le donne avevano per dire che erano parte di questo movimento era indossare il velo”.

Gli islamisti radicali che presero il potere costruirono il loro progetto di società intorno alla subordinazione della donna. Abolirono i diritti legali riconosciuti alle iraniane, cancellarono le restrizioni sulla poligamia e i matrimoni precoci, e infine imposero l’uso del velo negli spazi pubblici. Nel maggio 1980 fu eseguita la condanna a morte di Farrokhroo Parsa, una delle due ministre del governo dello scià, responsabile dell’istruzione.

Molte immagini di donne sparirono dai testi scolastici delle elementari; quelle rimaste di solito rappresentavano figure femminili segregate, dedite ai ruoli tradizionali e vestite in abiti islamici. La studente velata, immortalata nella graphic novel di Marjane Satrapi Persepolis, diventò il simbolo di un sistema progettato per ottenere con la forza cittadine islamiche modello.

Un numero sempre più vasto di ragazze provenienti da contesti tradizionali e dalle aree rurali entrò nel sistema scolastico. I loro genitori, che le avevano tenute lontane dalla scuola all’epoca dello scià, si sentivano a loro agio sapendo che avrebbero ricevuto un’istruzione in una società islamica. Secondo la Banca mondiale, la quota di giovani iscritte all’università balzò dal 3 per cento nel 1977 al 67 per cento nel 2015.

Molte lasciarono la loro casa per studiare in altre città, e lì abbracciarono nuovi valori e visioni del mondo, per poi scoprire che poco altro stava cambiando in Iran: donne istruite e altamente qualificate non trovavano un lavoro all’altezza delle loro competenze, e spesso i mariti pretendevano che non lavorassero affatto.

“La Repubblica islamica ha involontariamente creato una popolazione femminile che esiste come risposta e reazione alle sue stesse politiche”, mi dice Narges Bajoghli, che si occupa di Medio Oriente alla School of advanced international studies della Johns Hopkins university, a Washington. “Rivendicano i loro diritti nei modi che hanno imparato nelle scuole e nell’atmosfera della Repubblica islamica, ed è per questo che lo stato fa tanta fatica a reprimerle”.

Sigarette sui gradini

La presenza di donne senza velo a Teheran e in altre grandi città è il segno più visibile dell’indebolimento del potere dello stato. Alla fine di marzo nella capitale, con i monti Elborz innevati sullo sfondo, donne a capo scoperto facevano acquisti, portavano a passeggio i bambini, prendevano la metropolitana e pranzavano con un risotto allo zafferano. Un pomeriggio durante il Ramadan ho notato un gruppo di donne senza velo fumare sui gradini di marmo di una moschea. Lo hanno fatto tutti i giorni, finché la moschea non ha sistemato una barriera metallica davanti all’ingresso.

A Teheran il chador nero ormai è associato più al sostegno per il regime che alla devozione religiosa. Una donna che l’aveva sempre indossato di recente ha smesso di farlo. Fa la guida turistica e racconta su Instagram i suoi viaggi in giro per il paese. Con l’inizio delle proteste i suoi post erano stati sommersi di commenti offensivi che la definivano una “mercenaria del regime” e una parastou, una rondine, il termine per indicare le agenti dello stato usate come adescatrici.

Siamak Amiri

“Le donne della mia famiglia portavano il chador fin dai tempi dello scià Reza, è la nostra tradizione”, mi ha detto. Ma anche nel suo quartiere, vicino al bazar di Teheran, una zona conservatrice della città, i passanti la prendevano in giro. Ad aprile la guida suprema ha dichiarato che togliersi il velo era “religiosamente e politicamente immorale”. Mohammad Hadi Rahimi Sadegh, capo religioso della provincia di Teheran, ha avvertito che se non si prendevano provvedimenti non sarebbe rimasto “nulla del sistema islamico”. Ma – come la struttura legale della stessa Repubblica islamica, che risponde sia a Dio sia alla volontà del popolo – l’uso obbligatorio del velo è in un certo senso un’invenzione del defunto ayatollah Khomeini.

I funzionari hanno ampliato la sorveglianza video e digitale, usando i filmati di donne senza velo per negare servizi e imporre multe, ma continuano ad affermare che la persuasione e il “lavoro culturale” sono i modi migliori per incoraggiare il rispetto delle regole. Quando sono arrivata in un aeroporto regionale in un mio recente viaggio in Iran, ho ricevuto un messaggio sul telefono che m’informava che l’hijab (il velo che copre i capelli) “è un’immunità, non una limitazione”, e mi chiedeva di rispettare me stessa e gli altri obbedendo alla legge.

Esfandiari afferma che lo stato è intrappolato in un dogma che lui stesso ha creato: se all’inizio delle proteste avesse semplicemente abbandonato l’imposizione dell’hijab avrebbe potuto placare la rabbia degli iraniani. Invece ha risposto con una feroce repressione, arrestando migliaia di persone, uccidendone circa cinquecento ed eseguendo diverse condanne a morte dopo processi farsa. “Qualche mese fa era l’hijab”, mi dice Esfandiari. “Ora le persone vogliono rovesciare il regime”. Le studenti nelle scuole femminili hanno rappresentato una sfida particolare. “Sono giovani nate sotto questo regime, indottrinate nelle sue scuole, a cui è stato detto cosa fare, è stato detto di pregare, di coprirsi la testa dall’età di sei o sette anni”, dice Esfandiari. “La loro ribellione è un simbolo del fallimento della Repubblica islamica”.

Lo slogan dei curdi

Mahsa Jina Amini era nata nel 1999 a Saq­qez, una città nella provincia del Kurdistan iraniano, vicino al confine con l’Iraq. Aveva finito le superiori e lo scorso settembre si stava preparando a frequentare l’università a Urmia, duecento chilometri più a nord.

Siamak Amiri

Il 13 settembre, mentre era a Teheran per visitare alcuni parenti, è stata fermata dalla polizia religiosa fuori da una stazione della metropolitana. Secondo le ricostruzioni, era vestita con un mantello e un velo neri, un completo conservatore per gli standard della capitale, ma la polizia l’ha arresta comunque portandola con un furgoncino bianco in un centro di identificazione dove erano detenute decine di donne.

In un filmato di quel giorno, che è stato rilasciato in seguito dalla polizia, una donna identificata come Amini, che aveva lunghi capelli ondulati e un sorriso vivace, si avvicina a un ufficiale del “corso di orientamento” del distretto, indica il suo velo, e poi cade a terra. La ragazza è stata portata in un vicino ospedale, dove è stata attaccata a un respiratore. È morta dopo tre giorni di coma.

Le autorità hanno sostenuto che Amini aveva avuto un infarto legato a problemi preesistenti. Il rapporto del medico legale ha attribuito la morte a insufficienza multiorgano causata da ipossia cerebrale. Secondo il cugino della ragazza, Erfan Mortezai, alcuni testimoni presenti nel furgone della polizia hanno raccontato alla famiglia che per tutto il tempo Amini era stata insultata e picchiata, affermazioni che le autorità hanno negato. Al suo funerale, a Saqqez, le donne in lutto hanno agitato il velo in aria e hanno cantato “donna, vita, libertà”, uno slogan del Partito dei lavoratori del Kurdistan, il più importante gruppo militante curdo della regione.

Il funerale di Amini è stato la prima grande dimostrazione di quella che sarebbe diventata una rivolta nazionale. Due settimane dopo, secondo l’ong statunitense Human rights watch, le forze di sicurezza hanno ucciso decine di persone nel corso di una protesta dopo la preghiera del venerdì a Zahedan, il capoluogo del Sistan e Belucistan, una provincia nel sudest del paese dove vive la popolazione di etnia beluci. Poliziotti e agenti di altre forze di sicurezza si erano appostati sui tetti vicino alla principale moschea della città per sparare su manifestanti e passanti; altri a terra colpivano le auto che portavano i feriti in ospedale. La strage è diventata nota come il venerdì di sangue, il giorno con il bilancio più grave per il movimento di protesta.

Interferenze esterne

In autunno Erfan Mortezai ha concesso una serie di interviste televisive in cui affermava che, sulla scia della morte di Amini, il popolo iraniano voleva “diritti umani, un paese pacifico e il cambio di regime”, e che “il vecchio dittatore è arrivato alla fine”. A volte Mortezai sedeva davanti a una bandiera del Komala, un gruppo armato che lotta per una maggiore autonomia del popolo curdo in Iran. Non molto tempo dopo la città curda di Mahabad sembrava essere nelle mani dei manifestanti. Secondo i resoconti, le persone scese in strada avevano bloccato uno degli accessi, lanciando pietre contro l’ufficio del governatore e dando fuoco a un commissariato. I Guardiani della rivoluzione hanno inviato truppe per supportare la polizia locale e hanno lanciato una nuova serie di attacchi con l’artiglieria e i droni sulle basi curde separatiste in Iraq. Vali Nasr, professore alla Johns Hopkins, mi spiega che le autorità erano convinte che fossero stati i miliziani del Komala, non i manifestanti civili, ad aver preso il controllo della città. “Pensavano di avere a che fare non con una grave questione di ordine pubblico, ma con un problema molto più serio di sicurezza”, dice Nasr.

Per anni il regime si è fissato sui complotti stranieri per dividere il paese, soprattutto nelle irrequiete regioni di confine dell’Iran, dove vivono le minoranze etniche e religiose. “È importante considerare la mentalità di chi governa”, spiega Nasr. “Solo perché sei paranoico non significa che non ti stiano pedinando”.

Nel 2018 l’allora ministro dell’istruzione israeliano Naftali Bennett introdusse l’idea della “dottrina della piovra”: Israele non avrebbe più dovuto occuparsi solo degli alleati di Teheran in Libano, Siria, Iraq e nella Striscia di Gaza. Avrebbe dovuto portare la lotta in Iran, la testa della piovra. Più tardi quello stesso anno l’amministrazione statunitense di Donald Trump si ritirava dall’accordo sul nucleare con l’Iran e il segretario di stato Mike Pompeo dichiarava che gli Stati Uniti volevano un cambio di regime.

Iran International, un’emittente televisiva con sede a Washington e un seguito appassionato in Iran, ha alimentato il malcontento

Dopo la morte di Amini, Vali Nasr ha saputo che i Guardiani della rivoluzione pensavano che la maggior parte dei disordini nelle città curde fosse nata oltre il confine. “Pensavano che ci fosse effettivamente un coinvolgimento esterno”, dice Nasr, “o erano convinti di trovarsi in un momento di debolezza e si sono mossi rapidamente per impedire ad agenti esterni di approfittarne”.

Iran International, un’emittente televisiva in lingua persiana con sede a Wash­ington e un seguito appassionato all’interno dell’Iran, ha alimentato il malcontento. La rete è stata fondata nel 2017 da una società diretta da un uomo d’affari saudita che non si sforza molto di fingere obiettività. Durante la “sollevazione rivoluzionaria di Jina”, come i presentatori hanno definito le proteste, Iran International ha offerto un costante flusso di commenti fatti da separatisti, monarchici e attivisti contro il regime, compreso Reza Pahlavi, il figlio dell’ultimo scià, che vive negli Stati Uniti.

I notiziari spesso davano informazioni su dove e quando si sarebbero riuniti i manifestanti. “Questa grande rivolta del popolo iraniano ieri ha compiuto 41 giorni”, ha esordito una trasmissione a ottobre. “Tutti e quattro gli angoli di questa antica terra, il nostro caro Iran, gridano all’unisono che questo regime è spacciato e che questa generazione è unita per rovesciarlo” (la rete ha negato di essere affiliata al governo saudita e afferma che le sue trasmissioni sono “indipendenti” e “senza censura”).

Presto i funzionari del governo hanno cominciato a parlare apertamente di come il movimento Donna, vita, libertà fosse parte di una campagna coordinata per destabilizzare l’Iran. Il ministro degli esteri, Hossein Amir-Abdollahian, ha scritto su Twitter che “vari servizi segreti, Israele e alcuni politici occidentali che hanno elaborato piani per la guerra civile, la distruzione e la disintegrazione dell’Iran, dovrebbero sapere che l’Iran non è la Libia o il Sudan”.

Un esperto mi fa notare che gli attentati sono coincisi con l’uso strategico delle esecuzioni deciso dal regime per reprimere le proteste

Secondo Nasr questi avvertimenti erano per lo più rivolti alle donne che portavano l’hijab e che, il regime temeva, sentivano una certa affinità con il movimento. “Tra le donne più conservatrici e affiliate al regime si percepiva un’incredibile solidarietà nei confronti di queste ragazze e delle tesi che portavano avanti”, spiega. Nelle chat online le conservatrici “dicevano cose come ‘Sappiamo cos’è la polizia religiosa, perché ce l’abbiamo in casa. Si chiama padre e fra­tello’”.

La ragazza della porta accanto

Una donna proveniente da una famiglia conservatrice mi racconta che le sue sorelle inizialmente non avevano preso posizione sulle rivendicazioni dei manifestanti, analizzando quello con cui erano d’accordo e quello che pensavano fosse eccessivo. Alla fine hanno voltato le spalle al movimento, convinte che uno scontro di questo tipo con il regime avrebbe portato più danni che benefici. “Fanno parte di gruppi WhatsApp in cui si danno istruzioni ideologiche e tutti sembrano dire la stessa cosa”, mi confida la donna. “Credono di doversi appigliare al sistema, altrimenti l’intero edificio della religione crollerebbe”.

Questo messaggio è stato rafforzato con una intensa propaganda. A novembre è cominciato a circolare online un video prodotto con grande astuzia e intitolato “Per la ragazza della porta accanto”. Si basava sulla canzone Baraye del musicista iraniano Shervin Hajipour, che era diventata l’inno delle proteste e aveva vinto uno speciale Grammy, assegnato dalla first lady statunitense Jill Biden, come Migliore canzone per il cambiamento sociale. Il video si apre con il presidente George W. Bush che nel 2001 sbandierava il successo degli Stati Uniti nel combattere la “brutale oppressione” dei taliban sulle donne in Afghanistan e finisce con le affermazioni di Joe Biden dello scorso anno, al culmine delle proteste, su come gli Stati Uniti avrebbero potuto “liberare” l’Iran. In mezzo c’erano spezzoni che mostravano due decenni di sofferenze delle afgane. Il testo avverte le ragazze iraniane di non farsi perseguitare allo stesso modo dall’occidente: “Per te, ragazza della porta accanto/ non lasciare che la tua casa sia distrutta come la nostra/ non lasciare che i tuoi sogni diventino come le nostre storie/ non permettere che la guerra arrivi nel tuo paese”.

Avvelenate

Il 14 febbraio un funzionario della città santa di Qom ha annunciato che 117 studenti erano state ricoverate in centri medici con “sospetti sintomi di avvelenamento”. Il funzionario ha tentato di tranquillizzare l’opinione pubblica osservando che molte delle ragazze si erano riprese in tempi brevi, ma il panico si è diffuso immediatamente in città. Online circolavano immagini delle ambulanze parcheggiate fuori delle scuole e di studenti attaccate ai respiratori negli ospedali. Una folla di genitori infuriati si è radunata davanti a un edificio del governo locale, chiedendo un’indagine. Una donna ha gridato: “Questa è una guerra! Lo fanno in una scuola femminile a Qom per costringerci a restare a casa. Vogliono che le ragazze rimangano a casa”.

Ma le notizie di misteriosi avvelenamenti giravano già da mesi nel paese. Le vittime raccontavano di sentire odori particolari, come di agrumi, pesce marcio o cloro, prima di avere sintomi tra cui vomito, giramenti di testa, affanno e spossatezza. Alle scuole è stato detto di restare aperte, e ai genitori è stato consigliato di cercare notizie sui mezzi d’informazione ufficiali. Poi, verso la fine di febbraio, un viceministro della sanità, Younes Panahi, ha tenuto una conferenza stampa in cui dichiarava che i malori delle studenti erano stati causati da sostanze chimiche diverse da quelle di tipo militare. Panahi ha aggiunto che apparentemente “alcune persone volevano che tutte le scuole, soprattutto quelle femminili, fossero chiuse”.

Poco dopo ha ritrattato le sue dichiarazioni. Altri funzionari statali hanno ipotizzato che le ragazze avessero inventato i sintomi, affermando che circa il 90 per cento delle studenti stava sperimentando le conseguenze dello stress. Ali Pourtabatabaei, un importante giornalista di Qom che stava indagando sugli attacchi, è stato arrestato. Le agenzie di stampa indipendenti hanno riferito che più di un migliaio di ragazze di 58 istituti in una decina di province erano state avvelenate. “È arrivato Boko haram in Iran?”, si è chiesto su Instagram Mohammad Ali Abtahi, ex vicepresidente dell’Iran. Davanti alle scuole gli agenti della sicurezza si sono scontrati con genitori e insegnanti, lanciandogli gas lacrimogeni. I manifestanti hanno aggiunto un nuovo slogan al loro repertorio: “Morte al governo che uccide le bambine”.

Nina racconta che nel suo istituto le guardie della sicurezza hanno cominciato a scortare le ragazze al bagno. Lei e molte delle sue amiche si portavano il pranzo da casa, per paura di mangiare i pasti della mensa. Su WhatsApp le compagne di classe si esortavano a vicenda a non andare più a lezione. Nina alla fine è rimasta a casa per alcune settimane. L’intenzione degli attacchi sembrava chiara. “È una vendetta per i disordini che abbiamo creato”, dice Nina. “Non c’è una sola persona che non la pensi così”.

Siamak Amiri

I genitori hanno chiesto alla preside della scuola di Nina di passare all’apprendimento a distanza, su una piattaforma che era stata creata durante la pandemia. La scuola ha insistito che la presenza in classe era obbligatoria. Nina racconta che, non molto tempo dopo, l’insegnante ha telefonato alla madre per chiederle perché sua figlia non stava partecipando alle lezioni online: l’insegnamento a distanza in realtà era disponibile, ma non era stato formalmente riconosciuto.

Un’insegnante di una scuola femminile, che ha chiesto di essere chiamata Maryam, spiega che ha continuato ad andare al lavoro ma ha tenuto a casa la figlia di otto anni. “Avevo troppa paura”, dice. Il primo giorno che la bambina è rimasta a casa la sua scuola elementare è stata presa di mira. Un odore nauseabondo ha riempito il cortile e diverse alunne si sono sentite male. Poco dopo nella scuola di Maryam la preside ha mandato una persona nelle classi per dire alle studenti d’indossare le mascherine: uno strano odore si stava diffondendo nei corridoi. “Le gambe mi si sono intorpidite”, racconta Maryam. “Ho pensato: oh Dio, cosa ci succederà?”. Indossava due mascherine molto filtranti ma riusciva ancora a sentire la puzza di copertoni bruciati. Aveva la nausea e le vertigini. “Erano tutti così paranoici”, dice. “Non sapevamo cosa fosse reale e cosa no”. Alla fine Maryam non è sicura che si sia trattato di un avvelenamento. Due delle sue colleghe si sono sentite male, ma nessuna delle ragazze è svenuta o ha avuto bisogno di essere ricoverata.

A marzo lo stato ha ammesso che le studenti iraniane non sono state vittime di un’isteria di massa. L’ayatollah Khamenei ha definito gli avvelenamenti “un crimine imperdonabile ed enorme” e ha dichiarato che i responsabili sarebbero stati individuati e puniti severamente. Subito dopo le autorità hanno annunciato l’arresto di più di un centinaio di persone che, secondo il ministero dell’interno, “per creare problemi e con l’obiettivo di interrompere le lezioni” avrebbero “adottato delle misure come l’uso di sostanze innocue e maleodoranti”. La maggior parte dei sospettati non è stata identificata; tra quelli individuati c’erano uno studente scontento e individui che, secondo lo stato, erano indagati per possibili legami con gruppi estremisti di opposizione. Nessuno di loro sembra in grado di coordinare un’operazione nelle scuole su scala nazionale per contaminarle con sostanze chimiche tossiche. Maryam commenta: “Perfino distribuire dei biscotti in una scuola superiore è un’impresa logistica enorme”.

Un’altra spiegazione, ampiamente diffusa nei circoli politici moderati, è che i responsabili siano degli integralisti dei Guardiani della rivoluzione, della magistratura, delle istituzioni religiose e dei mezzi d’informazione di stato. Un esperto mi fa notare che gli attentati sono coincisi con l’uso strategico delle esecuzioni deciso dal regime per reprimere le proteste: “È davvero un modo per terrorizzare i genitori e reclutarli come forze dell’ordine. Impone un costo molto alto e il messaggio ai genitori è: ne vale davvero la pena? L’hijab è così importante?”.

L’inasprimento dei controlli probabilmente aveva l’obiettivo di prevenire l’annuale violazione estiva del codice di abbigliamento

Maryam mi racconta che il morale nella sua classe è al minimo: “La scuola ormai non ha più nessuna attrattiva né per le insegnanti né per le studenti. La questione non è solo l’hijab. È tutto sbagliato. Ovunque guardi c’è un problema”.

Nessuna via di mezzo

Nell’istituto di Nina le autorità hanno reagito duramente allo sfregio dei ritratti degli ayatollah. “L’atmosfera era tesa”, racconta. “Erano tutti arrabbiati e gridavano”. I funzionari hanno esaminato i filmati di sorveglianza che, hanno detto, mostravano una studente prendere una penna dalla mano di Nina pochi attimi prima che le foto fossero strappate dal muro. Nina ha ribadito di aver tentato di convincere le sue amiche a non imbrattare i ritratti. È rimasta seduta nell’ufficio della scuola, tremava, non voleva denunciare le sue amiche, ma era anche spaventata da quello che sarebbe potuto succedere se la colpa fosse ricaduta su di lei. Non poteva permettersi di essere espulsa. L’Iran, pensava, è fondamentalmente un paese non sicuro; un’istruzione superiore è necessaria per andarsene.

Le autorità scolastiche hanno ricontrollato il filmato e hanno stabilito che Nina era innocente, racconta. Ma l’intera classe è stata punita. Tutte le studenti hanno scritto le dichiarazioni in cui ammettevano di aver infranto le regole e chiedevano scusa, e hanno dovuto riparare i ritratti rovinati. Hanno provato a togliere l’inchiostro con degli asciugamani bagnati, ma la carta si è inzuppata e i volti degli ayatollah si sono deformati sotto la plastica.

Il ruolo della guida suprema è al centro del dibattito a Teheran. “Molti dicono che ha il pieno controllo e molti dicono che lo ha perso del tutto”, mi spiega Adnan Tabatabai, un analista politico che gestisce un centro studi in Germania. “Non c’è una via di mezzo o una conclusione definitiva”. Tabatabai ha saputo da un ex funzionario del governo a Teheran che durante l’inverno le autorità statali avevano indicato ad alcune scuole femminili di allentare le regole sull’abbigliamento. Ma nelle settimane seguenti era cresciuta la rabbia dei sostenitori più oltranzisti del governo, che si erano mobilitati. Le autorità, sostiene Tabatabai, “hanno usato parte di questa indignazione per mostrare all’opinione pubblica che la gente chiedeva più rigidità nei confronti di chi si toglieva il velo”.

Le ronde sono aumentate. Una donna nella città di Rasht ha raccontato in un podcast che uomini armati giravano in moto per le strade ordinando a chi non portava il velo di coprirsi. In un mercato a Teheran un cliente ha lanciato dello yogurt contro due donne senza velo, che sono state poi arrestate per aver violato la legge sull’hijab (l’uomo è stato arrestato per disturbo della quiete pubblica). On­line si poteva vedere il video di un episodio avvenuto a Ramsar, vicino al mar Caspio, in cui un uomo gridava: “Tutte le donne in questo ristorante sono nude”. Una con il chador minacciava che se lo stato non avesse agito “spareremo a volontà”. Ha usato l’espressione atash be-ekhtiyar, permesso di sparare, che è diventata un modo per indicare i poteri extragiudiziali concessi dallo stato ai suoi sostenitori. È simile, ha detto su Instagram un noto professore universitario, a una violenza contro le donne approvata dallo stato.

A marzo il religioso estremista più importante del paese, Ahmad Alamolhoda (che è anche il suocero del presidente Ebrahim Raisi), ha dichiarato che una donna in strada senza velo deve essere pronta ad “affrontare le lamentele delle persone, a capire che non c’è posto per lei”. Anche secondo i sondaggi del regime, in Iran è una minoranza a pensarla così. Ma se questa minoranza non è assecondata, mi spiega Tabatabai, il sistema rischia di perdere i suoi sostenitori più fedeli, “quelli che scendono in strada quando c’è bisogno di loro”. La Repubblica islamica ha una lunga storia di giochi politici di questo tipo, sempre con l’opzione di prendere le distanze, afferma Tabatabai. “Quelle persone possono fare il lavoro che lo stato non vuole fare”.

In pratica, però, le “lamentele del popolo” sono spesso liquidate come rumore di fondo. Qualche giorno dopo il capodanno persiano, che si celebra alla fine di marzo, sono andata in una cittadina del sud, a circa ottocento chilometri da Teheran. Il tragitto per uscire dalla capitale attraversa l’uniforme pianura desertica che circonda Qom. In una stazione di servizio, dove i turisti si fermano per un caffè e il pranzo, una dipendente ha chiesto alle donne senza velo di coprirsi la testa. Qualcuna l’ha ignorata, altre le hanno detto di “andare al diavolo”. Mentre salivo in ascensore per raggiungere l’area ristorante l’ho sentita gridare: “Se non vi piace quella è la porta!”.

In primavera varie istituzioni statali hanno annunciato un giro di vite. Poco dopo, secondo quanto riportato dalla stampa, 150 bar e negozi sono stati chiusi per non aver fatto rispettare la legge sull’hijab. Alla fine di aprile il sindaco di Teheran, Alireza Zakani, ha dichiarato che le donne senza velo che volevano prendere la metropolitana avrebbero prima ricevuto degli avvertimenti e poi non avrebbero più potuto entrare nelle stazioni. I funzionari dei trasporti hanno dichiarato che le telecamere di sorveglianza avrebbero identificato le donne al volante senza velo e sequestrato le loro auto se avessero trasgredito di nuovo.

Diritti
Impedire i raduni per l’anniversario

◆ Il 13 settembre 2022 Mahsa Jina Amini, una donna curda di 22 anni in visita a Teheran, è stata arrestata dalla polizia religiosa con l’accusa di indossare il velo in modo scorretto. Poco dopo è stata ricoverata in ospedale e il 16 settembre è morta. Al suo funerale le donne si sono tolte il velo gridando “donna, vita, libertà”, uno slogan del movimento di liberazione delle donne curde. È stato l’inizio di una contestazione che nei mesi successivi ha portato iraniane e iraniani in strada in tutto il paese. Il regime ha reagito con violenza: circa cinquecento persone sono state uccise e almeno ventimila arrestate; ci sono decine di condannati a morte per il presunto coinvolgimento nelle proteste, e in sette casi la sentenza è stata eseguita.

◆ Con l’avvicinarsi del primo anniversario della morte di Amini, la repressione si è intensificata. Secondo Iran Wire le forze di sicurezza hanno aumentato i controlli nelle strade e costretto uomini e donne arrestati per aver partecipato alle proteste a presentarsi di nuovo nei commissariati e nei tribunali, hanno interrogato attivisti, arrestato familiari delle vittime della violenza (compreso lo zio di Amini) e licenziato molti professori universitari che avevano simpatizzato per i manifestanti. Il sito sostiene che “le richieste di presentarsi in commissariato, le minacce e le aggressioni sono usate per dissuadere i giovani dal partecipare ai raduni il 16 settembre”. Amnesty international ha denunciato una “campagna di molestie e intimidazioni” per costringere le persone a restare in silenzio in occasione dell’anniversario.


L’inasprimento dei controlli probabilmente aveva l’obiettivo di prevenire l’annuale violazione estiva del codice di abbigliamento, che ha sempre contrapposto lo stato alle donne con pantaloni sotto al ginocchio e sandali. In estate nella capitale è frequente vedere l’ombelico scoperto. Un tassista mi ha raccontato con orrore di aver preso a bordo una giovane donna in piazza Haft-e Tir, nel centro di Teheran, con indosso quello che sembrava un corpetto sotto la giacca. Una legge proposta di recente potrebbe imporre una serie di nuove sanzioni, tra cui multe sostanziose e la “privazione dei diritti sociali” per le donne che infrangono le regole sull’abbigliamento o le criticano online. Un esponente di spicco della linea oltranzista si è lamentato dicendo che la norma non fa abbastanza, definendola un progetto “per sostenere le donne senza velo”.

In pista

Intanto il movimento di protesta ha accelerato riavvicinamenti regionali che un tempo sembravano impensabili. A marzo l’Iran e l’Arabia Saudita hanno annunciato che avrebbero ristabilito i rapporti diplomatici dopo anni di ostilità. Secondo i mezzi d’informazione, una delle richieste principali di Teheran a Riyadh era di far abbassare i toni di Iran International. All’inizio di maggio la Lega araba ha deciso di riammettere la Siria, l’alleato chiave dell’Iran nella regione. Ma il regime iraniano resta brutale all’interno dei suoi confini. Alla fine della primavera è stata eseguita la condanna a morte di almeno sessanta persone, con accuse che andavano da reati di droga alla blasfemia. Tra loro c’erano anche alcuni uomini coinvolti nelle proteste.

A metà luglio, poco prima dell’inizio del mese sacro di Muharram e a due mesi dall’anniversario della morte di Mahsa Jina Amini, un portavoce delle forze dell’ordine ha annunciato che la polizia religiosa sarebbe tornata nelle strade. Io ero a Teheran e un’amica mi ha chiamata per avvertirmi di portare con me il velo uscendo di casa. Aveva sentito dire che a una donna era stato proposto di lavare i cadaveri in un obitorio di Teheran come punizione per non aver indossato il velo. “Io oggi metto l’hijab”, mi ha detto. “Non voglio lavare cadaveri”.

Alla fine di aprile Nina è tornata a scuola. Il maghnaeh non è più obbligatorio. Le alunne arrivano senza velo ed escono senza velo, e perfino alcune insegnanti lavorano a capo scoperto. Nina è impaziente di migliorare il suo inglese, fa parte del suo progetto per frequentare l’università all’estero e diventare un’avvocata di diritto internazionale. Per la gita di fine anno la sua classe è andata alle piste dei go-kart.

C’era anche una classe maschile. Gli adolescenti in Iran non sono abituati a stare in uno spazio pubblico senza sentire l’effetto segregante del velo. Alcuni ragazzi hanno tirato fuori i telefoni dicendo che volevano documentare questo kashf -e hijab, svelamento. Poco dopo se ne sono andati tutti. In seguito Nina è venuta a sapere che gli organizzatori della gita li avevano cacciati. Per il resto del pomeriggio le ragazze hanno giocato in pace, con i capelli che fluttuavano liberamente sulla pista. ◆ fdl

Azadeh Moaveni è una giornalista e scrittrice statunitense di origine iraniana. Il suo ultimo libro è Guest house for young widows (Random House Audio 2019). In Italia ha pubblicato Viaggio di nozze a Teheran (Newton Compton 2009), Lipstick jihad (Pisani 2006) e Il mio Iran (Sperling&Kupfer 2006), scritto con l’avvocata e premio Nobel per la pace Shirin Ebadi. È stata corrispondente dal Medio Oriente per Time e per il Los Angeles Times, e collabora regolarmente con il New York Times e il Guardian. Dirige il progetto Genere e conflitto dell’International crisis group.

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Questo articolo è uscito sul numero 1529 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati