Per entrare nella proprietà di famiglia a Hagåtña, la capitale dell’isola di Guam, Monaeka Flores deve attraversare un cancello presidiato dall’esercito e raggiungere una cabina dove un soldato le controlla il documento rilasciato dalle autorità statunitensi. A quel punto è libera di passare, almeno in teoria. I contrattempi sono la norma. A volte le guardie confondono i suoi dati personali con quelli di un familiare. In altri casi le dicono semplicemente che deve tornare indietro. A luglio del 2021 Flores non ha potuto partecipare a una grigliata con tutta la famiglia perché il suo documento, che va rinnovato ogni anno, era scaduto. Per Flores è complicato anche invitare qualcuno a casa: gli ospiti devono essere controllati e autorizzati dalle autorità statunitensi. La donna racconta di un amico a cui di recente è stato vietato l’accesso perché il software dell’ufficio sicurezza era fuori uso.

La proprietà all’estremità settentrionale di Guam – un territorio sotto la sovranità statunitense nel Pacifico occidentale – appartiene ai Flores da cinque generazioni. La famiglia di suo nonno pescava, cacciava e si guadagnava da vivere coltivando noci di cocco e allevando maiali. Ma dopo la seconda guerra mondiale le forze americane, che avevano urgentemente bisogno di spazio, requisirono l’area coltivata. E il terreno che rimase ai Flores è schiacciato tra due proprietà del governo di Washington. Subito a sud c’è la base aerea di Andersen, l’unica della regione in grado di fornire supporto tecnico e logistico ai bombardieri statunitensi. A nord c’è un’oasi naturalistica che il dipartimento della difesa ha assegnato all’Us fish and wildlife service (l’agenzia incaricata di gestire e conservare la pesca e la fauna selvatica) invece di restituirla alle famiglie a cui era stata tolta. I Flores non possono entrare nella proprietà attraverso la riserva, quindi devono per forza passare dalla base.

È una situazione “scomoda, disumanizzante e demoralizzante”, dice Monaeka Flores. E anche per questo, quando devono definire la presenza militare statunitense, lei e gli altri attivisti indigeni usano la parola “occupazione”. Su quest’isola di 561 chilometri quadrati sono molte le famiglie che si sono viste togliere dal Pentagono la loro terra, tutta o in parte. L’esercito ha requisito case e fattorie per creare una base dell’aeronautica di 60 chilometri quadrati, un sito di telecomunicazioni di dodici chilometri quadrati, a sud della struttura, e poi un ampliamento della base di otto chilometri quadrati. Si è preso più di 72 chilometri quadrati nell’entroterra meridionale, dove c’è il più grande bacino idrico dell’isola per metterci un magazzino di munizioni navali. E per edificare un grande cantiere navale ha distrutto un intero villaggio che era stato bombardato durante la seconda guerra mondiale, trasferendo i suoi abitanti sulle fangose colline dell’interno.

Dal 1946 gli Stati Uniti hanno occupato più di un terzo della superficie di Guam. I lavori di costruzione e le esercitazioni militari hanno distrutto i luoghi ancestrali del popolo indigeno locale, i chamorro, e danneggiato gran parte degli ecosistemi acquatici e forestali dell’isola. Discariche, sversamenti e defolianti hanno riempito Guam di siti tossici, molti dei quali devono essere ancora bonificati.

L’interesse del Pentagono per quest’isola è dovuto alla sua posizione strategica: Guam e il vicino Commonwealth delle isole Marianne settentrionali si trovano a meno di cinquemila chilometri da Tokyo, Seoul, Shanghai e Manila. Sono quindi i territori statunitensi più vicini all’Asia orientale e al sudest asiatico. Per gran parte del novecento Washington ha usato Guam come centro operativo nella regione, tanto che l’isola si è guadagnata il soprannome di “punta della lancia”. Da quando la politica estera statunitense è diventata più aggressiva nei confronti della Cina, il dipartimento della difesa ha deciso di fare ancora più affidamento su quest’isola. I piani di espansione prevedono il trasferimento di cinquemila marines, la costruzione di alloggi, di un complesso per le esercitazioni, di un poligono per bombe a mano e di altre strutture per l’addestramento. Per realizzare tutto questo gli Stati Uniti stanno radendo al suolo migliaia di ettari di foreste, che ospitano ecosistemi fragili e unici al mondo, la principale fonte di acqua potabile dell’isola e molti siti culturali dei chamorro. L’esercito sta anche costruendo un sistema di difesa missilistico e una stazione di ormeggio per portaerei che distruggerà decine di chilometri di barriera corallina.

Qualche settimana fa sono andato a Guam per parlare con gli attivisti che si oppongono a questi progetti. Nel corso degli anni hanno ottenuto qualche vittoria importante, ma continuano a scontrarsi con i limiti imposti dalla loro condizione coloniale e finora le loro rivendicazioni sono state soffocate dalla burocrazia militare. Temono che l’ulteriore militarizzazione distruggerà ancora di più l’ambiente e le tradizioni dell’isola, fino a renderla invivibile. “Siamo i danni collaterali dell’impero”, dice Flores. “E l’impero scommette sul nostro logoramento”.

Storia tossica

Angela Santos è seduta nella sua jeep, ferma al lato di una superstrada nel nord di Guam. Dal sedile del guidatore guarda oltre un recinto di filo spinato verso un’apertura tra gli alberi. Non può avvicinarsi più di così alla terra della sua famiglia, che fu sequestrata dall’esercito prima della sua nascita e che presto ospiterà una grande struttura di addestramento per la guerra urbana. L’ultima persona della famiglia a mettere piede su quei terreni è stato suo fratello Angel, storico leader della resistenza chamorro, che li occupò per protesta trent’anni fa.

Nel 1990, quando lavorava come impiegato alla base di Andersen, Angel Santos si imbatté casualmente in un rapporto confidenziale secondo cui dal 1978 al 1986 il dipartimento della difesa statunitense aveva riscontrato livelli pericolosamente alti di tricloroetilene (un solvente usato per sgrassare e pulire) nell’acqua potabile della base. L’esposizione prolungata al tricloroetilene può provocare tumori renali ed è legata a una serie di altre patologie, tra cui il cancro al fegato. Tre anni prima la figlia di Santos, Francine, di due anni, era morta per un tumore tra un rene e il fegato. Non c’era modo di dimostrare che a ucciderla fosse stata l’esposizione al tricloroetilene, ma dopo aver letto il rapporto per Santos fu impossibile evitare il collegamento: la famiglia aveva sempre vissuto nella base dopo la nascita di Francine. L’esercito non aveva dato informazioni sulla presenza di tricloroetilene nell’acqua. E tra le potenziali vittime non c’erano solo i soldati e i lavoratori della base: la metà settentrionale dell’isola, dove si trova la struttura militare, è ricoperta di calcare poroso sotto il quale passa la falda acquifera di Northern Lens, che assicura circa l’80 per cento dell’acqua potabile di Guam. Quello che aveva contaminato l’acqua della base, probabilmente usciva anche dai rubinetti delle case nel resto dell’isola.

Non era la prima volta che l’esercito portava rifiuti tossici a Guam. Durante e subito dopo la seconda guerra mondiale i soldati smaltirono vecchi equipaggiamenti, fusti usati di sostanze chimiche e bombe inesplose gettandoli sugli scogli, ricoprendoli di terra e bruciandoli con il napalm. I rifiuti rilasciavano metalli pesanti e altri inquinanti che per decenni sono rimasti presenti sull’isola a livelli nocivi. Negli anni sessanta e settanta gli Stati Uniti usarono le stesse sostanze chimiche impiegate per fabbricare l’agente arancio – il defoliante con cui le forze americane hanno avvelenato generazioni in Vietnam, Cambogia e Laos – per ripulire le linee di recinzione e una tubatura.

Negli anni novanta la marina scoprì che una delle sue centrali elettriche aveva contaminato di bifenili policlorurati (Pcb) una palude e un fiume. Gli abitanti della zona da allora denunciano un’alta incidenza di casi di tumore. Non ci sono molte informazioni sull’impatto dell’inquinamento sulla salute pubblica a Guam, ma i numeri disponibili e le storie degli abitanti tracciano un quadro preoccupante. I dati del centro per le ricerche sul cancro dell’università di Guam mostrano che l’incidenza dei tumori è cresciuta del 20 per cento ogni cinque anni tra il 1998 e il 2012. E un altro studio mostra che il tasso di decessi per tumore sull’isola è più che raddoppiato tra gli anni settanta e gli anni duemila.

Una base della marina statunitense a Guam, marzo 2018 (ApFootage/Alamy)

Angel Santos era stato per molto tempo fedele agli Stati Uniti: si era arruolato nell’aviazione a 18 anni e aveva prestato servizio per 13 anni. Ma cambiò idea quando scoprì che l’esercito aveva silenziosamente contaminato la falda idrica di Guam. A quel punto diventò il leader del movimento contro l’occupazione dell’isola. Insieme ad altri attivisti fondò l’associazione Nasion chamoru (Nazione chamorro), che organizzò proteste per tutti gli anni novanta. I suoi discorsi sul rapporto tra colonialismo, militarismo, capitalismo e razzismo innescarono un dibattito tra gli abitanti dell’isola. Santos fu eletto tre volte nell’assemblea legislativa di Guam. È morto nel 2003, a 44 anni.

Il suo antagonismo irritava il potere – nel 2000 passò sei mesi in un carcere per aver disubbidito a un ordine del tribunale che gli imponeva di stare lontano dalla terra federale – e anche a molti chamorro, per i quali Santos era una sorta di bastone tra le ruote ben oliate della complessa politica di deferenza dell’isola verso i militari. Secondo gli attivisti di Guam, questa politica ha creato due posizioni nell’opinione pubblica locale. Da una parte c’è chi critica gli Stati Uniti per gli abusi e il passato coloniale. Come ha spiegato Michael Bevacqua, attivista e docente, questa posizione è ben presente perfino nelle forze armate statunitensi. Che sia a causa dell’impossibilità di parlare la propria lingua, del furto della terra ancestrale, del semplice fatto di non avere una rappresentanza elettorale al congresso di Wash­ington, “ogni chamorro ha un attivista dentro di sé”, dice Bevacqua. D’altra parte, la popolazione locale si porta ancora dietro i traumi dell’occupazione giapponese. La riconquista di Guam da parte degli Stati Uniti, durante la seconda guerra mondiale, è il punto chiave della narrazione contemporanea della storia dell’isola. Ogni luglio ci sono grandi celebrazioni per commemorare il giorno della liberazione (che secondo gli attivisti anti-americani è il giorno di un’altra occupazione). “Il patriottismo di molti chamorro arriva da quegli eventi”, osserva Bevacqua. Quel patriottismo, più la promessa di stabilità economica, fa sì che Guam abbia una percentuale di arruolamento militare superiore a quella di ogni stato continentale degli Stati Uniti.

Documento ingannevole

Tra le voci più influenti a favore dell’ultima espansione militare statunitense ci sono Catherine Castro e Phillip Santos, rappresentanti della camera di commercio locale. Gli ho chiesto cosa pensassero delle preoccupazioni degli attivisti per i danni ambientali. “L’esercito ha fatto un grande lavoro per garantire la salvaguardia ambientale dell’area”, mi ha risposto Castro. Poi ha aggiunto che, secondo lei, gli attivisti che denunciano danni ambientali “forse non hanno letto” i documenti che l’esercito ha pubblicato per giustificare i suoi progetti. “Negli studi sull’impatto ambientale condotti nell’area ci sono tutte le risposte”.

La legge statunitense impone che prima di avviare grandi progetti di costruzione si faccia una valutazione sulla salute dei cittadini. E prevede che l’opinione pubblica possa chiedere informazioni o sollevare questioni che altrimenti potrebbero essere trascurate. Per molti progetti, compreso il rafforzamento della presenza militare, le agenzie governative usano le dichiarazioni d’impatto ambientale come la principale, se non l’unica, forma di consultazione popolare. Quando il Pentagono ha pubblicato la prima bozza, nel 2009, molti abitanti di Guam capirono che l’esercito stava cercando di raggirarli. Il testo era scritto in modo molto tecnico e l’opinione pubblica aveva solo 45 giorni di tempo per leggerlo e commentarlo. “Mettiamo insieme questo voluminoso documento che quei chamorro analfabeti non leggeranno e stabiliamo una piccola finestra per rispondere. Nessuno risponderà e potremo dire: ‘Noi vi abbiamo consultato e non avete avuto niente da obiettare’”, dice Melvin Won Pat-Borja, attivista che all’epoca era docente di scuola pubblica e insegnante di poesia.

Decisi a proteggere l’isola dal militarismo incontrollato, Won Pat-Borja e un gruppo di attivisti riuscirono a ottenere una proroga del periodo utile per presentare le loro osservazioni, poi si divisero la bozza e si misero al lavoro. “Non avevamo un nome, eravamo solo persone che si riunivano e leggevano”, dice Leevin Camacho, che all’epoca faceva l’avvocato in uno studio privato. Lessero che i militari progettavano di portare sull’isola 8.600 marines e costruire una stazione di ormeggio per portaerei, una base dei marines e strutture di addestramento. Scoprirono che, al momento della massima espansione, le attività di costruzione avrebbero portato altri 79mila abitanti su un’isola che ne contava circa 160mila e che l’aumento della presenza militare avrebbe fatto crescere il consumo di acqua di quasi 23 milioni di litri al giorno. Trovarono un nome per il gruppo – Noi siamo Guåhan, usando il termine chamorro per l’isola – e lanciarono una campagna per invitare la comunità a esprimersi sul progetto. Quando il periodo stabilito terminò, furono presentate diecimila osservazioni, e i militari erano tenuti ad affrontarle tutte.

Gli attivisti hanno cominciato a infiltrarsi nei palazzi del potere

Nuove minacce

A preoccupare il movimento e gli altri abitanti era soprattutto il progetto per la costruzione di cinque poligoni per esercitazioni a fuoco vivo. I militari prevedevano di realizzarli vicino ai resti di un antico villaggio chamorro noto come Pågat. L’immagine di mitragliatrici che sparavano sopra un luogo sacro spinse la gente a protestare. Cavalcando quest’ondata di indignazione, Noi siamo Guåhan e altri citarono in giudizio l’esercito statunitense, sostenendo che non avevano preso in considerazione le alternative possibili. Nel 2012 il governo di Washington annunciò che avrebbe rinunciato a una parte dell’espansione. L’anno seguente l’esercito disse che Pågat non era più la loro prima scelta per i poligoni destinati alle esercitazioni a fuoco vivo. Molti abitanti di Guam erano convinti che fosse stato il loro attivismo a causare questi ripensamenti. Ma sapevano che la vittoria era temporanea.

L’ultimo piano di allargamento del Pentagono comporta una nuova serie di minacce. L’esercito ha deciso di spostare i poligoni sulla punta settentrionale dell’isola, vicino a un’oasi naturalistica in un’area nota come Ritidian. Per costruire le strutture i militari hanno cominciato ad abbattere circa 400 ettari della foresta nel nord dell’isola. Da millenni i chamorro usano le specie floreali che vivono in quella foresta per nutrirsi, curarsi e per le pratiche spirituali. Gli Stati Uniti si sono impegnati a trapiantare alcune specie nel tentativo di preservare la biodiversità delle zone forestali distrutte, ma secondo Frances Meno, una guaritrice chamorro di terza generazione, è quasi impossibile mantenere vive molte di queste piante al di fuori del loro habitat naturale. Meno ha cercato di coltivare erbe per continuare il suo lavoro, ma raramente vivono più di qualche anno in un orto. Da quando sono cominciati i lavori di costruzione Meno si è già scontrata molte volte con i soldati mentre cercava di raccogliere le sue erbe. “Se continuano a spianare la giungla”, mi ha detto, “non potremo più fare i guaritori”.

Anche i pescatori saranno danneggiati, perché l’esercito ha creato una zona di sicurezza – una fascia a cui nessuno può accedere quando sono in corso esercitazioni – nel tratto di mare davanti all’area del poligono. Quando i lavori saranno finiti, quelle acque saranno inaccessibili per nove mesi all’anno. “Io sono cresciuto qui, e pesco da quando avevo sei anni”, mi ha detto Mike James. “L’esercito è importante, ma siamo importanti anche noi”.

Più le minacce si moltiplicano, più la resistenza si rafforza. Gli attivisti di Noi siamo Guåhan e altri ambientalisti hanno cominciato a infiltrarsi nei palazzi del potere e della cultura. Won Pat-Borja, l’insegnante, è responsabile della commissione sulla decolonizzazione, un’agenzia del governo che punta a cambiare i rapporti politici di Guam con gli Stati Uniti. Bevacqua è diventato un leader del movimento per la rinascita della lingua chamorro. Altri sono diventati direttori di case editrici, insigni operatori sociali, avvocati di primo piano e scrittori. Camacho, l’avvocato, nel 2018 è stato eletto procuratore generale di Guam. Il suo ufficio ha citato in giudizio l’esercito per costringerlo a pagare la bonifica di una vecchia discarica della marina da cui fuoriuscivano sostanze tossiche.

Da sapere
Lontani da Washington

Guam è l’isola più grande dell’arcipelago delle Marianne, nell’oceano Pacifico occidentale. È sotto il controllo degli Stati Uniti dal 1898, quando la Spagna la cedette al governo di Washington (insieme a Puerto Rico e alle Filippine) alla fine della guerra ispano-americana. Secondo la legge statunitense, Guam è un “territorio non incorporato”. Chi nasce sull’isola è cittadino degli Stati Uniti. Gli abitanti eleggono direttamente il loro governatore e un parlamento unicamerale formato da 15 senatori. Scelgono anche un delegato (senza diritto di voto) alla camera del congresso statunitense, ma non possono votare alle elezioni presidenziali. Dal 2019 la governatrice è Lou Leon Guerrero, del Partito democratico.

◆L’isola conta circa 160mila abitanti, in grande maggioranza appartenenti alla comunità chamorro, popolo indigeno di Guam e delle isole Marianne. La lingua più diffusa è l’inglese. La religione principale è il cattolicesimo.


Un’altra organizzazione, Prutehi Litekyan, ha portato la lotta sulla scena internazionale. Con l’aiuto di uno studio legale di Guam, ha presentato un reclamo al relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni; in risposta, tre relatori speciali dell’Onu hanno inviato una lettera al governo di Washing­ton in cui esprimono preoccupazione per le violazioni dei diritti umani e civili dei chamorro, aprendo la porta a ulteriori iniziative internazionali. Il gruppo Prutehi Litekyan è perfino riuscito a far eleggere due suoi attivisti all’assemblea legislativa di Guam. E attacca i funzionari pubblici considerati troppo ossequiosi nei confronti dell’esercito.

Il rumore della foresta

Per molti chamorro visitare Pågat, l’area salvata dai poligoni, è un’esperienza spirituale. Scendendo da frastagliate formazioni rocciose di calcare nella giungla foltissima, si raggiungono alcune grotte in cui si può attraversare a guado la falda acquifera di Northern Lens in uno dei pochi luoghi in cui affiora alla superficie. Passate le grotte, si cammina tra schegge di terracotta, mortai scavati nella roccia e pali di pietra su cui i chamorro costruivano le loro case, tutti resti che vanno dal 900 al 1700 dC. Il silenzio della foresta è infranto solo dal rumore dei passi e delle lucertole che scappano via, almeno fino all’arrivo con un frastuono assordante di un aereo o di un elicottero militare. Serve a ricordare che, anche se hanno preservato questo luogo, i chamorro non sono riusciti a cambiare i rapporti di forza sull’isola.

“A livello locale non puoi incidere realmente su quello che sta succedendo”, ammette Cara Flores, attivista di Noi siamo Guåhan e fondatrice di una società di produzione chamorro. “Alla fine è Washing­ton a decidere”. E il congresso ha deciso di militarizzare ulteriormente il Pacifico. Oltre a Guam e al resto delle Marianne, sta studiando la possibilità di costruire nuove basi nella vicina Repubblica di Palau e negli Stati Federati della Micronesia, isole nazione a cui gli Stati Uniti hanno un accesso militare esclusivo. Washington sembra più interessata a intimidire la Cina che ad ascoltare le comunità indigene, destinate a rimanere intrappolate nel fuoco incrociato. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1438 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati