Nell’ultimo decennio l’ordine politico africano ha dovuto affrontare un numero crescente di sfide. Nelle aree urbane si è aperta un’epoca di proteste. In varie zone rurali – dal Sahel al Mozambico – si sono moltiplicati e diffusi i movimenti jihadisti. I dati lasciano pochi dubbi sul dilagare dell’instabilità: secondo l’organizzazione per la raccolta di dati sui conflitti politici Acled, nell’Africa subsahariana il numero di proteste è passato da 614 nel 2011 a 5.900 nel 2021. Nello stesso periodo gli scontri e le violenze contro i civili sono aumentati del 480 per cento.

Perché? E perché ora? Le consuete spiegazioni che chiamano in causa la povertà e la corruzione sono utili solo fino a un certo punto. La situazione è cambiata: i sistemi politici tradizionalmente basati sulle reti clientelari e gli scambi di favori hanno generato nuovi e potenti avversari che non sono più in grado di tenere a bada. Nelle città africane la protesta è diventata lo strumento preferito di questa rivolta. Le mobilitazioni sono organizzate e guidate da persone della classe media, che lavorano nel settore privato, e non nella pubblica amministrazione o nelle aziende parastatali, come succedeva in passato.

Grazie a un flusso di denaro e di idee che negli ultimi vent’anni è diventato più consistente, le nuove generazioni e i movimenti a cui hanno dato vita sono influenzati da idee e strategie viste in altri paesi. Anche le motivazioni alla base delle proteste sono diverse: derivano dallo scontento diffuso per il fatto che la crescita economica non ha portato benefici alla maggioranza, mentre i governi non hanno mantenuto le promesse di un’amministrazione più efficiente. Movimenti cittadini come Y’en a marre in Senegal, il Balais citoyen in Burkina Faso e la Sudanese professionals association si sono tenuti fuori dalla politica per fare pressioni dall’esterno. Il movimento Lucha, nella Repubblica Democratica del Congo, vieta agli iscritti di candidarsi a incarichi governativi.

Non tutti disdegnano la politica: in Uganda, Bobi Wine e il suo partito People power hanno elettrizzato i giovani poveri delle città. La campagna presidenziale di Peter Obi in Nigeria sta incanalando la rabbia e la speranza del movimento #EndSars, nato contro le violenze della polizia. Wine e Obi sono visti – a torto o a ragione – come leader che, se eletti, romperebbero con la politica tradizionale. E per la prima volta si vedono forme di resistenza che minacciano i sistemi politici nati dopo le indipendenze.

Nelle aree rurali il contesto è diverso. In molti paesi i partiti al potere, pur contestati nelle città, sono riusciti a mantenere il controllo delle campagne. Ma anche lì ci sono nuove forme di mobilitazione. Dal Mali all’Rdc gruppi jihadisti hanno fatto leva sullo scontento delle popolazioni rurali per scatenare insurrezioni. Questi movimenti sono spesso guidati da persone relativamente giovani, istruite, mosse da un’ideologia chiara, che hanno perso fiducia nello stato. Mentre i manifestanti cercano di richiamare i governanti alle loro responsabilità, i jihadisti promettono di abolire gli stati, in una grande epurazione del corrotto ordine occidentale.

Reazioni allergiche

Le proteste nelle città e le insurrezioni jihadiste sono oggi la minaccia più grande per i regimi africani, prigionieri di un’eredità coloniale tossica. L’esito di questa sfida però non è prevedibile né sarà necessariamente positivo. Per i governanti messi all’angolo – che non possono smantellare il sistema che li mantiene al potere né comprare gli oppositori – l’unica opzione è la repressione violenta. Questa risposta però li delegittima ulteriormente e incoraggia nuove ribellioni. In Sudan l’uso della violenza non ha risolto i problemi della giunta militare. In Mali, Guinea e Burkina Faso dopo i golpe condotti con il consenso popolare sono nati governi militari incompetenti.

In ogni caso, le popolazioni africane sembrano aver sviluppato un’allergia alle reti clientelari che tengono in piedi i loro regimi. Questi sistemi, nel bene o nel male, sono destinati a cambiare. ◆ gim

Evan Nachtrieb è un esperto di proteste in Africa del Pitzer college, negli Stati Uniti.

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Questo articolo è uscito sul numero 1494 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati