L’espressionismo astratto, un club statunitense per soli uomini, si sta finalmente allargando. Nell’ultima revisione del canone della storia dell’arte, finora dominato dai maschi bianchi, la Whitechapel gallery di Londra ha organizzato Action, gesture, paint, una mostra di ottanta espressioniste astratte provenienti da tutto il mondo.

Molte delle opere potrebbero facilmente essere confuse con i capolavori più conosciuti di quel movimento emerso a New York alla fine degli anni quaranta, che ha reso celebri figure come Jackson Pollock, Willem de Kooning e Mark Rothko. Anche se non sono mai stati parte di una scuola ufficiale, questi artisti condividevano la fiducia nelle possibilità emotive ed espressive dell’astrazione e dei suoi elementi fondamentali: pittura, colore e movimento.

Ma non erano i soli. In mostra alla Whitechapel c’è l’artista ebrea ucraina Janet Sobel, emigrata negli Stati Uniti nel 1908. Si ritiene che la sua tecnica basata sull’uso di pipette e di un’aspirapolvere per schizzare il colore sulla tela abbia ispirato direttamente il celebre dripping di Pollock. Dello stesso ambiente faceva parte Elaine de Kooning, che firmava le sue astrazioni energiche e allusive solo con le sue iniziali per evitare qualsiasi paragone sessista con il marito.

Tra le artiste di altre aree del mondo troviamo rappresentanti dell’Africa, dell’Asia, dell’Europa e delle Americhe, ognuna con le sue tradizioni e con le sue prospettive. La taiwanese Li Fang, per esempio, lavorò in Francia e Svizzera, e realizzò pitture a olio ispirate alla natura, usando tecniche di solito riservate all’arte calligrafica.

April mood di Helen Frankenthaler, esposto alla Whitechapel (Stephen Chung, Alamy)

Allargare il campo

Il punto di partenza di questa mostra è un’importante esposizione del 2016 organizzata dal Denver museum of art, in cui erano presenti opere di pittrici attive sulle due coste degli Stati Uniti tra gli anni quaranta e cinquanta. Whitechapel ha voluto allargare il campo. Come spiega l’assistente curatrice Candy Stobbs, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale “le artiste provenienti da tutto il mondo cercavano un modo per rappresentare la realtà dopo la devastazione, un modo per ricominciare”. Anche se non conoscevano a vicenda i loro lavori, tutte gravitavano verso “un linguaggio pittorico fatto di astrazione gestuale”.

Per enfatizzare i collegamenti tra le opere, spesso sorprendenti, la mostra non segue un ordine cronologico o geografico, ma è divisa in cinque aree tematiche. Una comprende le artiste la cui opera esplora i miti, i simboli e i rituali, come la mozambicana Bertina Lopes, impegnata nell’astrazione di forme iconografiche africane. Le altre aree raccolgono opere legate a: materia, processo e tempo; ambiente, natura e percezione; essere, espressione ed empatia; e infine performance, movimento e ritmo.

Molte delle artiste in mostra sono morte e sono sconosciute. Per individuarle, oltre ad analizzare approfonditamente i cataloghi di esposizioni simili, gli organizzatori hanno collaborato con un gruppo di tredici consulenti, tra curatori, storici dell’arte e collezionisti.

Negli ultimi anni c’è stato un aumento significativo delle iniziative per riscoprire artiste trascurate. Tuttavia, come sottolinea Stobbs, “a volte è stato difficile trovare materiale pubblicato. Molte artiste quando hanno interrotto l’attività sono scivolate via dalla storia dell’arte.

Anche se alcune erano state notate, si trattava comunque di un ambiente dominato dagli uomini. E quasi mai alle artiste è stato consentito di dedicarsi alla propria carriera nello stesso modo in cui hanno potuto farlo gli uomini”.

Oggi esiste un dibattito sui meriti di progetti che cercano semplicemente di aggiungere i nomi delle donne al canone o di creare un corpus separato “di sole donne”. Ma a pensarci bene sarebbe forse meglio esaminare le condizioni storiche che hanno causato l’esclusione delle artiste, o magari provare a smantellare del tutto l’idea di un canone.

Nella sua introduzione al catalogo della mostra, la storica dell’arte fem­minista Griselda Pollock riconosce l’esistenza di questo genere di problema, ma sottolinea che le esposizioni come quella della White­chapel gallery sono “tatticamente necessarie” per fare in modo che la nostra conoscenza delle artiste sia “ricca e chiara, al pari di quella degli uomini che insieme a loro hanno creato l’arte moderna”.

D’altronde perché dovremmo lasciare che, come sempre, gli uomini si prendano tutto il merito? ◆ as

Da sapere
Mogli, amiche e muse

◆ Solo l’1 per cento delle opere della collezione della National gallery è realizzato da donne; l’opera di un’artista vale in media un decimo di quella di un uomo; un recente rapporto ha rivelato che tra il 2008 e il 2020 in trentuno musei statunitensi solo l’11 per cento delle acquisizioni ha riguardato opere di artiste e che poco meno del 15 per cento delle mostre è stato dedicato a donne. Considerando che il mondo dell’arte è un microcosmo che rispecchia i valori dell’intera società, questi squilibri evidenziano quanto lavoro ci sia ancora da fare. Anche per questo, durante la visita alla mostra della Whitechapel gallery mi ha sorpreso che cinque delle 86 brevi didascalie che accompagnano le opere facessero riferimento ad artisti, inclusi i mariti di Elaine de Kooning, Anna-Eva Bergman e Lilian Holt. Di sicuro si tratta di una percentuale minima, ma mi ha fatto pensare che le mostre contestualizzano ancora le artiste in relazione agli uomini che conoscevano o frequentavano, e mi chiedo se questo tipo di racconto possa mai davvero cambiare. Non ho intenzione di criticare la Whitechapel, un’istituzione molto più progressista di tante altre. È raro che siano organizzate mostre dedicate solo ad artiste, dopo secoli di esibizioni tutte al maschile che tra l’altro non sono mai considerate o presentate come tali. Ma è ragionevole discuterne a fondo. D’accordo, l’opera viene prima dell’artista e l’artista viene prima del suo genere. Ma quando si tratta di rappresentazione, i musei e le gallerie devono valutare criticamente con grande attenzione le narrazioni che impongono ai loro visitatori. Katy Hessel,
The Guardian


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Questo articolo è uscito sul numero 1500 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati