Il presidente russo Vladimir Putin è estremamente sensibile alla slealtà e tende a vedere traditori ovunque. Quindi è facile supporre che avesse un buon motivo per eliminare il leader della compagnia militare privata Wagner, che a giugno lo aveva sfidato con una rivolta armata. Tuttavia, se continuiamo a concentrarci sulla persona di Evgenij Prigožin e sullo spirito vendicativo di Putin rischiamo di trascurare un punto essenziale, cioè che il problema di Putin non si limita a un singolo individuo e non può essere risolto con un omicidio. A giugno la rivolta di Prigožin aveva messo in chiaro che, da quel momento in poi, l’autoritario leader russo avrebbe dovuto fare i conti non solo con un eccentrico signore della guerra e con i suoi mercenari, ma anche con un ampio gruppo di cittadini favorevoli a politiche più severe in patria e a una campagna militare più aggressiva in Ucraina.

Per molti versi Prigožin si era ritagliato il ruolo di portavoce di questo gruppo. Nelle sue dichiarazioni pubbliche si era scagliato con forza contro la burocrazia russa, accusata di scarso patriottismo, e aveva insistito sulla necessità di una mobilitazione generale del paese, di una completa militarizzazione dell’economia e sull’esigenza di orientare tutte le risorse e le attività economiche delle élite verso gli interessi e gli obiettivi della nazione.

Vendetta percepita

Dopo l’ammutinamento della Wagner, Putin avrebbe potuto ottenere l’appoggio dei sostenitori della mobilitazione generale. Doveva solo adottare una retorica più intransigente, avviare il processo di militarizzazione del paese e lanciare una campagna di repressione contro la parte antipatriottica dell’élite. A quanto pare, però, finora il presidente russo ha evitato questa strategia: la guerra rimane ufficialmente una “operazione speciale”, non ci sono repressioni su larga scala contro i traditori e al popolo viene promesso che non ci sarà una nuova chiamata alle armi. Allo stesso tempo le figure di spicco del “partito della mobilitazione totale” sono sistematicamente eliminate dalla sfera pubblica. Lo schianto dell’aereo su cui volava Prigo­žin non è il primo evento di questo tipo.

Appena un giorno prima dell’incidente si era venuto a sapere che il generale Sergej Surovikin era stato licenziato dal suo incarico di comandante in capo delle forze aeree russe. È risaputo che Surovikin aveva buoni rapporti con Prigožin. Inoltre, proprio come il leader della milizia Wagner, non andava particolarmente d’accordo con il ministro della difesa, Sergej Šoigu, e con il capo dello stato maggiore, Valerij Gerasimov. Secondo alcune voci, Surovikin era già stato arrestato subito dopo l’ammutinamento della Wagner. Anche Igor Girkin, un’altra figura di primo piano nel campo dei sostenitori della mobilitazione totale, fondatore del gruppo nazionalista chiamato “Club dei patrioti arrabbiati”, è stato messo a tacere. Sebbene fosse ai ferri corti con Prigožin, meno di un mese dopo la marcia della Wagner su Mosca si è ritrovato dietro le sbarre.

Putin si è rivelato incapace di affrontare le cause più profonde della crisi di giugno

Tutti questi eventi non sono solo conseguenze della rivolta di Prigožin. Sono anche sintomi di una lotta in corso. Anche se nessuno sta marciando su Mosca, su Putin pesano ancora le pressioni di quella parte dell’élite insoddisfatta del modo in cui sta conducendo la guerra.

Il 20 agosto, appena tre giorni prima dello schianto dell’aereo di Prigožin, l’agenzia Bloomberg aveva riferito che alcuni agenti dei servizi segreti russi stavano chiedendo al presidente di licenziare il ministro della difesa e il capo dello stato maggiore. Volevano anche che il Cremlino adottasse una linea più aggressiva in guerra, lanciando una mobilitazione su vasta scala e imponendo la legge marziale. Queste posizioni non si trovano solo ai vertici della classe dirigente. Nella società russa c’è un nutrito gruppo di persone che si può considerare sostenitore della militarizzazione totale e della “nazionalizzazione” delle élite. In particolare, secondo l’istituto di sondaggi Russian Field, il 20 per cento dei russi simpatizzava per Prigožin anche dopo il fallimento della sua rivolta. Inoltre, il progetto di ricerca indipendente Chroniki (Cronache) ha evidenziato che il 22 per cento della popolazione si può considerare a favore della guerra. Queste persone non solo affermano di appoggiare l’“operazione militare speciale”, ma pensano anche che il ritiro delle truppe dall’Ucraina debba avvenire solo dopo che gli obiettivi della guerra saranno stati raggiunti, e credono che nella distribuzione delle risorse pubbliche l’esercito debba avere la priorità. Sono loro i soggetti più sensibili alla retorica di figure come Prigožin e Girkin. Putin, tuttavia, non sta facendo nessun serio tentativo per riconquistare la fiducia di questi “turbopatrioti”. Sta cercando, al contrario, di mettere a tacere chi di loro alza troppo la voce.

In questo contesto non è così importante se Prigožin sia davvero morto nello schianto del suo aereo. E neanche se l’incidente sia stato effettivamente orchestrato da Putin. Ciò che conta è che il fatto sarà con ogni probabilità percepito come la vendetta del presidente contro il capo della Wagner. Di conseguenza è probabile che tutti i “patrioti arrabbiati” lo interpretino come il segnale che Putin è pronto a trattare duramente non solo l’opposizione liberale contraria al conflitto, ma anche chi chiede una strategia bellica più decisa.

Allo stesso tempo è chiaro che Putin sta ancora cercando di uscire dalla crisi causata dall’ammutinamento della Wagner. Ma lo sta facendo in modo incerto e ambiguo. Ricapitolando: il leader ribelle è stato ucciso e il suo principale alleato tra i capi dell’esercito è stato arrestato. Tutto sembra annunciare una mobilitazione militare su larga scala. Allo stesso tempo, però, c’è un piano per evitare la diffusione di cattive notizie in vista delle elezioni presidenziali del 2024.

Il senso di quanto successo nei due mesi passati dall’ammutinamento della milizia Wagner è quindi che, anche se Prigožin ha perso, Putin sta ancora lottando per vincere. Il leader russo si è rivelato incapace di affrontare le cause più profonde della crisi di fine giugno. Non è riuscito ad arginare il “prigožinismo” ormai diffuso tra i cittadini russi e nei ranghi della sua stessa élite. Né ha sufficientemente “prigožinizzato” le sue strategie politiche e la sua retorica, adottando un atteggiamento più intransigente per vincere la guerra. Con lo schianto dell’aereo di Prigožin molti crederanno che Putin abbia dimostrato di essere un duro. Con ogni probabilità, invece, i suoi avversari più bellicosi penseranno che questa determinazione serve soprattutto a nascondere la sua persistente debolezza, indecisione e indolenza. ◆ ab

Ivan Fomin è un politologo russo, analista del Center for european policy analysis.

Da sapere
Le indagini sull’aereo caduto

◆ Il 23 agosto 2023 Evgenij Prigožin, capo della milizia privata Wagner, è morto nello schianto dell’aereo privato su cui stava viaggiando da Mosca a San Pietroburgo. Nell’incidente sono rimasti uccisi anche i tre membri dell’equipaggio e gli altri sei passeggeri, tutti legati alla Wagner, tra cui il comandante Dmitrij Utkin. La morte di Prigožin è stata confermata da un test del dna il 27 agosto. Il suo funerale si è svolto in forma strettamente privata a San Pietroburgo il 29 agosto. Appena l’aereo è precipitato fonti vicine alla Wagner hanno parlato di un attacco orchestrato dall’esercito russo; il presidente russo Vladimir Putin ha però negato ogni coinvolgimento delle istituzioni, definendo Prigožin un “uomo di talento” che “nella vita aveva commesso gravi errori”. Mosca ha aperto un’indagine sull’accaduto, che però non sarà condotta secondo le procedure internazionali.


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Questo articolo è uscito sul numero 1527 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati