Di tutte le faccende nessuna è più futile ed esasperante dello spolverare. Perché? Perché la polvere è estremamente difficile da eliminare. Ogni passaggio del piumino non fa che trasferire la nostra energia a quelle minuscole particelle, che volano allegramente nell’aria, fluttuano per alcuni istanti e poi si adagiano di nuovo delicatamente, distribuendosi sulle superfici appena pulite. Ma noi siamo furbi, vero? Usiamo un panno inumidito o quel fantastico tessuto in microfibra elettrostatica che abbiamo visto in uno spot pubblicitario? Non importa: la semplice pressione della mano consuma sia il tessuto sia la superficie, lasciando una scia di microscopica devastazione.

Non otterremo mai e poi mai un risultato perfetto: è impossibile. Allora quando – e perché – questo compito impossibile è diventato un’aspirazione? In Europa e negli Stati Uniti, il ventesimo secolo è cominciato con un panorama domestico alimentato dalla legna, dal carbone e dall’olio di gomito. Nella sua autobiografia del 1934, la scrittrice statunitense E­­dith Wharton osservava: “Sono nata in un mondo in cui telefoni, motori, luce elettrica, riscaldamento centralizzato, raggi x, cinema, radio, aeroplani e radiotelegrafi non solo erano sconosciuti, ma non erano ancora stati neanche immaginati”. Quando arrivò a scrivere le sue memorie, tutte queste novità, un tempo sorprendenti, erano la norma.

Eppure, anche se può sembrare che queste tecnologie rendano il mondo più grande – il giorno più lungo, e i nostri movimenti quotidiani più liberi e più ampi – i loro effetti sulla vita delle donne sono stati spesso esattamente l’opposto. Piuttosto che liberarle dal lavoro domestico, queste tecnologie l’hanno fatto aumentare. Una luce più brillante significava polvere e sporco più visibili e quindi il bisogno di una pulizia più accurata e più frequente per rimuoverli. I vestiti dovevano essere lavati ogni giorno o due, e anche i figli.

“Il lavoro domestico di oggi non è imposto dai limiti del sistema immunitario umano. È stato inventato intorno alla fine del secolo scorso, con il preciso scopo di dare alle donne della classe media qualcosa da fare”, scriveva nel 1993 l’autrice e attivista Barbara Ehrenreich. “Quando la preparazione del cibo e la cucitura degli indumenti si spostarono dalle case alle fabbriche, le casalinghe della classe media si ritrovarono a fissare il vuoto. Dovevano diventare suffragette? Entrare nel mondo del lavoro e competere con gli uomini? ‘Troppe donne’, scriveva in un editoriale il Ladies’ Home Journal nel 1911, ‘sono pericolosamente inattive’. A questo punto entrarono in gioco le esperte di scienze domestiche, un gruppo di donne che, se esistesse un inferno femminista, sarebbero torturate per l’eternità con i piumini da spolvero. Erano donne che facevano carriera dicendo ad altre donne che non potevano fare carriera perché i lavori domestici erano di per sé un’occupazione sufficiente”.

Spuntò una nuova generazione di manuali sui lavori domestici, per istruire le donne sugli atteggiamenti, i comportamenti e le ansie propri del ruolo di casalinga. The ABC of good housekeeping, pubblicato nel 1949, regola gli orari tutti i giorni dalle 7.00 alle 19.00. La spolveratura comincia alle 9.30 con la pulizia delle camere da letto, poi si passa al soggiorno, alla sala da pranzo, al pianerottolo e alle scale alle 10.15. Tra le 11.30 e le 12.30 e dalle 15 alle 16 è il momento dei “lavori settimanali straordinari”, il che significa spolverare di più quattro giorni su sei perché si pulisce a fondo una determinata stanza. Inoltre tutti i tipi di pavimento devono essere spazzati quotidianamente, mentre sui tappeti va passato l’aspirapolvere una volta alla settimana; i mobili devono essere spolverati e “strofinati” ogni giorno, e anche le superfici delle pareti richiedono una spolverata settimanale.

Un problema senza nome

Perché bisognava spolverare così spesso? La pulizia è una questione di rispettabilità: “Non sai mai quando un amico o un parente caro e fidato può entrare e far scorrere un dito in guanto bianco lungo il battiscopa dietro il divano, e come ti sentiresti allora?”, osservava la scrittrice satirica Elinor Goulding Smith negli anni cinquanta. Ma esiste anche un’ansia più profonda, una paura dell’invasione: la polvere è implacabile e ci circonda. La storica Elaine Tyler May, nel suo libro sull’impatto della guerra fredda sulle famiglie statunitensi, racconta come la stabilità della casa di periferia simboleggiasse la sicurezza in un momento di profonda instabilità geopolitica. La polvere rivela che la sacralità della casa è una finzione: minaccia il suo status di rifugio dal mondo esterno. La battaglia contro di essa sembra banale, ma inconsciamente la posta in gioco è esistenziale.

Nel suo libro del 1963 La mistica della femminilità, Betty Friedan racconta che “milioni di donne vivevano ispirandosi alle belle immagini della casalinga americana che salutava il marito con un bacio dalla finestra, portava i bambini a scuola con la sua station wagon e sorrideva mentre passava la nuova lucidatrice elettrica sul pavimento immacolato della cucina”. La loro vita era ridotta alla servitù, sostiene, le loro ambizioni e i loro interessi erano messi da parte a favore dei bisogni della famiglia. Friedan lo definì “un problema senza nome”, una malattia dell’anima causata da una vita piena di compiti inutili e di orizzonti profondamente limitati. Pensate a Betty Draper, la perfetta casalinga bionda di Mad men, con le mani intorpidite dalla rabbia psicosomatica repressa quando deve lavare i piatti e fare altre faccende domestiche. Vedendo la sua giornata scorrere nel vuoto, prende un fucile ed esce in giardino per sparare ai piccioni del vicino che hanno osato esercitare la libertà che a lei manca. Alcuni sostengono che Friedan avesse esagerato i problemi della casalinga disperata. Tutte le donne di cui non scriveva – le donne non bianche e della classe operaia, ma anche le madri single, le lesbiche e le single in generale – avevano le loro difficoltà, molte delle quali dal punto di vista della sopravvivenza erano più urgenti della noia. Eppure c’è qualcosa di vividamente simbolico in quel momento culturale: la perfetta casalinga bianca di periferia che impazzisce per una striscia di polvere.

Quando sono stressato o sopraffatto dai problemi, o quando sento che sto perdendo il controllo sulla mia vita, provo il bisogno compulsivo di pulire il mio appartamento. È il desiderio di mettere ordine nel mio ambiente, nella speranza che possa in qualche modo mettere ordine anche nella mia mente agitata. La stessa convinzione esiste a livello sociale.

Guardando la porta di casa

Forse conoscete la famosa definizione dell’antropologa Mary Douglas, secondo cui “lo sporco è materia fuori posto”. La cosa importante di questa intuizione è che Douglas non sta parlando solo dell’ordine materiale delle cose. “Credo che alcuni inquinamenti siano usati come analogie per esprimere una visione generale dell’ordine sociale”, scrive. La storia delle preoccupazioni per la polvere e l’igiene domestica lo dimostra in ogni sua fase.

Quella della pulizia nel novecento non è solo una storia di distinzioni di genere e di classe, ma anche di disuguaglianze basate sul colore della pelle

Gli interventi dei riformatori sanitari dell’ottocento e la “mania della scienza domestica” all’inizio del secolo successivo furono spesso dettati da pregiudizi di classe. Adrian Forty, professore emerito di storia dell’architettura allo University college London, collega “il feticismo dell’igiene” con “la paura borghese di perdere autorità sociale e politica”. “Il timore dell’inquinamento nasce quando i confini esterni di una società sono minacciati”, scrive. L’urbanizzazione e l’industrializzazione avevano scosso l’ordine sociale stabilito, facendo emergere una nuova classe operaia urbana che partecipava alle proteste, agli scioperi – e in Francia e Germania, alle rivoluzioni – per conquistare il diritto a un salario giusto, a migliori condizioni di lavoro e al voto.

L’igiene diventò un mezzo per distinguere i poveri “buoni” e “rispettabili” dalla plebaglia. Quando la loro baraccopoli fosse stata rasa al suolo, quelli che seguivano i diktat degli operatori sanitari della classe media avrebbero potuto ottenere nuovi alloggi, quelli che non si conformavano alle norme sarebbero stati sfrattati. I meno fortunati strisciavano letteralmente sui cumuli di polvere di Londra – le grandi pile di rifiuti, come quella appena a sud del quartiere di King’s Cross – guadagnandosi da vivere con gli scarti di tutti gli altri. Quindi le classi medie dovevano ostentare la pulizia domestica per distinguersi da quelli che facevano il “lavoro sporco”.

La polvere – o meglio la sua assenza – continuò a indicare status e rispettabilità per le comunità della classe operaia nel Regno Unito lungo tutta la metà del ventesimo secolo. Le donne che vivevano nelle case a schiera dei centri urbani pulivano il gradino d’ingresso seguendo un rituale quotidiano o settimanale, lo lucidavano con la cera rossa o lo lustravano con una pietra abrasiva finché non brillava. Spazzavano la strada per tenere lontana la polvere e lo sporco (consistente nelle aree industriali) e versavano un secchio di acqua saponata sul marciapiede per pulire anche quello. “Questo dimostrava quanto tenevi alla tua casa”, dichiarò Margaret Halton, 85 anni, al Lancashire Telegraph nel 1997. “Potevi dire chi era pulito e chi non lo era semplicemente guardando la porta di casa sua”. In queste strade strette e comunità affiatate, avevi sempre tutti gli occhi addosso. Mantenere una perfetta pulizia in condizioni difficili era il modo per dimostrare il proprio orgoglio.

Facendo una ricerca sull’argomento, inizialmente ho pensato che l’eliminazione della polvere fosse una componente minima ma importante della nascita della modernità: la creazione del nuovo attraverso la sconfitta della malattia e della sporcizia, la pulizia come sistema di controllo, fino al livello microscopico. Man mano che proseguivo le letture, tuttavia, la “bianchezza” continuava a comparire accanto allo sporco – non solo come immagine visiva dell’ambiente domestico ideale, igienicamente immacolato, ma anche del candore dell’archetipo della casalinga americana degli anni cinquanta, che viveva in quartieri dai quali le famiglie nere venivano sistematicamente escluse perché le banche non gli concedevano i mutui. Oggi a Londra bisognerebbe chiudere gli occhi per non notare che la maggior parte dei lavoratori che puliscono case e uffici sono persone non bianche, spesso latinoamericane o nere. Quella della pulizia nel novecento non è solo una storia di distinzioni di genere e di classe, ma anche di disuguaglianze basate sul colore della pelle.

Orrore morale

La pulizia raramente è solo pulizia, un processo pratico e funzionale che consiste nel passare l’aspirapolvere sulla moquette e nel lavarsi le mani con il sapone. È sempre carica di un ulteriore significato. La sua virtù apparentemente ovvia è offuscata dalla consapevolezza che spesso la pulizia è usata per creare categorie di persone: il cittadino virtuoso contro l’emarginato. Le donne, in particolare, sono etichettate con parole come “troia”, che collegano l’immoralità sessuale a questioni di sporcizia e disattenzione; la “brava donna” è ancora sinonimo della casalinga attenta e “pulita”.

Non fraintendetemi: per favore, continuate a passare l’aspirapolvere. Gli acari della polvere provocano l’asma e le sostanze chimiche rilasciate dal divano alterano il sistema endocrino e fanno male alla salute. I benefattori della riforma sanitaria dell’ottocento fecero davvero del bene alla salute pubblica. Ma potremo mai liberare la polvere dall’orrore morale che provoca?

La polvere è un simbolo del tempo che passa, del decadimento e della morte, ma anche il residuo della vita. Il suo significato non è mai bianco o nero, ma grigio e piuttosto confuso. Convivere con la polvere ci insegna ad accettare la contraddizione: dobbiamo pulire, ma non identificarci con la pulizia; rispettare il bisogno materiale di igiene, diffidando però del suo uso come metafora sociale.◆bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1531 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati