La presidente del consiglio italiana Giorgia Meloni dovrà essere molto abile dal punto di vista diplomatico per fare marcia indietro sul progetto della Belt and road initiative (Bri), la nuova via della seta cinese. Nel 2019 Giuseppe Conte, precedessore di Meloni, ha firmato il memorandum d’intesa con il governo di Pechino. Da allora l’alleanza tra Italia e Cina, che ha portato scarsi benefici economici, è diventata più scomoda dal punto di vista geopolitico, ma un’uscita di Roma potrebbe causare le ritorsioni di Pechino.

Il sostegno pubblico di un paese del G7, il gruppo che riunisce le economie più sviluppate del pianeta, è stato un trionfo per il piano infrastrutturale da mille miliardi di dollari voluto dal presidente cinese Xi Jinping, mentre l’Italia non ha ottenuto molto dal punto di vista economico. Il memorandum d’intesa comprendeva 29 accordi di tipo istituzionale e commerciale, che in molti casi però erano già stati attivati. Nel frattempo progetti come gli investimenti di Pechino nei porti di Genova e Trieste sono stati rinviati o bloccati, dimostra uno studio di Francesca Ghiretti del Mercator institute for China studies (Merics).

I dati del centro studi statunitense Rhodium group indicano che la Cina ha investito direttamente dodici miliardi di euro in Italia tra il 2013 (quando Pechino ha avviato la Bri) e il 2022. Ma la quota di questa somma arrivata dopo la firma del memorandum del 2019 è inferiore al 7 per cento. Portogallo e Grecia, altri due paesi che fanno parte dell’iniziativa, hanno registrato un calo simile negli investimenti. Ungheria e Polonia, invece, hanno avuto più benefici, soprattutto attraverso la costruzione di impianti per la fabbricazione di batterie.

Da sapere
Meno soldi di prima
La diminuzione degli investimenti diretti tra Cina e Italia. Miliardi di dollari (Fonte: Rhodium Group, Reuters Breakingviews)

A luglio di quest’anno il ministro della difesa italiano Guido Crosetto ha definito la decisione di firmare il patto con la Cina “improvvisata e atroce”. L’Italia ha tempo fino a dicembre del 2023 per ritirarsi dall’accordo, che altrimenti sarà prolungato automaticamente per cinque anni. Uscire ora rafforzerebbe la credibilità di Meloni con gli Stati Uniti e con il presidente Joe Biden, deciso a limitare le esportazioni verso la Cina. Ma in passato Pechino ha punito la Lituania quando il paese baltico aveva sostenuto Taiwan, mentre l’azienda svedese Ericsson ha perso una grossa fetta di mercato in Cina dopo che Stoccolma ha vietato l’importazione di apparecchiature dell’azienda cinese rivale Huawei. I prodotti di lusso italiani sono vulnerabili perché hanno uno scarso valore strategico per la Cina. Inoltre un giro di vite contro gli sfarzi costosi sarebbe in linea con la strategia di Xi, impostata sulla “prosperità comune” a scapito dei “redditi eccessivi”.

Meloni ha definito l’accordo “un paradosso”, ma ha anche dichiarato che gli Stati Uniti o altri paesi non condizioneranno l’Italia a prendere una decisione. Uscire dall’accordo potrebbe essere difficile. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1527 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati