Sono passati sei anni da quando l’esercito birmano lanciò un’operazione di pulizia etnica contro i rohingya, una minoranza musulmana non ufficialmente riconosciuta dello stato del Rakhine, in Birmania. All’epoca 200mila rohingya erano già fuggiti nel vicino Bangladesh, ma entro la fine del 2017 nel distretto costiero di Cox’s Bazar ne sarebbero arrivati altri 700mila.

Per accoglierli sono state spianate colline, abbattuti ettari di foresta e costruite decine di migliaia di capanne; sono state scavate latrine, trivellati pozzi e organizzati ambulatori. Kutupalong-Balukhali, chiamato semplicemente Kutupalong, è il più grande campo profughi del mondo. È formato da vari campi adiacenti, con strade principali in cemento e mattoni che danno accesso a vicoli stretti dove le famiglie vivono in capanne di bambù e tela cerata; alcune sono costruite su pendii e nel periodo dei monsoni rischiano di franare. Anche se piove in abbondanza, l’accesso all’acqua potabile è limitato a poche ore al giorno e le liti davanti ai distributori di acqua purificata sono frequenti.

Le attività avviate dai rohingya sono fiorenti, ma come tutte le iniziative dei profughi nei campi sono alla mercé della polizia bangladese, che può farle chiudere perché non hanno l’autorizzazione del governo. Recinti di filo spinato definiscono i confini di quest’area, rendendola un’unica baraccopoli.

Negli anni il Bangladesh ha avuto relazioni ostili con la Birmania e ha imposto rimpatri forzati ai cittadini birmani, ma ha aperto le porte ai rohingya, che lottano per la sopravvivenza. Li sottopone a una serie di controlli sociali che comprendono restrizioni alla costruzione di scuole nei campi e ostacoli alla registrazione dei nuovi nati. I loro movimenti, perfino da una zona all’altra di Kutupalong, sono limitati.

Per la legge non possono lavorare, e moltissimi si arrangiano come possono. Subiscono i capricci della polizia, le estorsioni e gli arresti. La posizione del governo sui campi è un ambiguo mix di tolleranza – nonostante ondate di xenofobia tra la popolazione bangladese, spesso alimentate dai politici – e divieti applicati con maggiore o minore rigidità a seconda del clima che si respira nel paese e nella regione. Tutto questo lascia i profughi in una condizione di perenne incertezza.

A ciò si aggiungono gli scontri tra bande criminali rohingya per il controllo del traffico di yaba, un mix di metanfetamina e caffeina prodotto soprattutto in Birmania ma di cui il Bangladesh è uno dei mercati principali. Anche se il traffico è per lo più in mano a bangladesi, i conflitti tra bande nei campi sono in aumento, come i pericoli per i profughi. Ad agosto ho incontrato due bambini di cinque e sette anni che erano stati feriti accidentalmente durante una sparatoria. Un proiettile aveva attraversato le gambe del bambino e la parte bassa della schiena della bambina.

Sopravvivenza a rischio

Il dispiegamento di agenzie umanitarie a Kutupalong è impressionante, ma l’impegno dei paesi donatori sta diminuendo. Tra marzo e giugno i sussidi mensili per i viveri – che sono versati sulle sim dei telefonini – sono passati da 12 a otto dollari (da 11,20 a 7,5 euro) a persona. Ad agosto il piano congiunto di risposta alla crisi delineato dalle Nazioni Unite e da Dhaka era finanziato solo al 30 per cento. Questo determinerà, tra le altre cose, un rischio maggiore di malnutrizione, un peggioramento delle condizioni di salute, un incremento del traffico di stupefacenti e una tendenza più diffusa dei ragazzi che vivono nei campi a entrare nei gruppi armati. Gli ambulatori e gli ospedali sono già sovraccarichi e aumentano i neonati sottopeso registrati nei reparti di maternità: ogni anno a Kutupalong nascono circa 30mila bambini.

Cosa significa essere un rohingya in questi campi? Lottare per ottenere un certificato di nascita per tuo figlio; litigare – e qualche volta venire alle mani – ai punti di distribuzione dell’acqua; cercare modi di integrare i sussidi alimentari, contraendo debiti a tassi d’interesse proibitivi; rischiare di essere arrestati o taglieggiati mentre si cerca di lasciare il campo per una giornata di lavoro. Anziani e disabili, ma anche donne sole con bambini, a volte devono pagare qualcuno che li aiuti in faccende in cui non sono autosufficienti (riparazioni domestiche, trasporto di pesanti bombole del gas dai punti di distribuzione), nonostante siano previsti servizi di questo tipo.

Che si lavori in regola grazie a una delle tante organizzazioni presenti nei campi o in modo illegale fuori da Kutupalong, sono sempre favoriti i rohingya con un’istruzione o quelli che parlano inglese. Le donne sono vittime di stupri e violenze, spesso non denunciati.

La sopravvivenza del popolo rohingya in simili condizioni sarebbe un vero miracolo. La maggior parte spera di tornare in Birmania, ma questo potrà accadere solo quando gli saranno restituite terra e nazionalità, che le autorità gli hanno tolto nel 1982. Alcuni hanno sfidato la sorte e sono tornati indietro, esponendosi al rischio di nuove persecuzioni.

In pochi hanno beneficiato di rare opportunità di stabilirsi in altri paesi, come il Canada o gli Stati Uniti, ma il governo di Dhaka ha sospeso il programma di reinsediamento in quei paesi nel 2010, sostenendo che per i rohingya era un incentivo ad andare in Bangladesh. Di recente si è registrato qualche timido tentativo di riavviare il processo. L’alternativa è la rischiosa traversata via terra o via mare verso la Malaysia, diventata la nuova terra promessa per un numero crescente di rohingya a Kutupalong. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1530 di Internazionale, a pagina 33. Compra questo numero | Abbonati