Da ragazzo Blas Omar Jaime passava molti pomeriggi imparando la storia degli antenati. Tra un sorso di mate e un boccone di torta fritta, sua madre Ederlinda Miguelina Yelón gli tramandava le conoscenze che aveva custodito usando il chanà, una lingua gutturale che si parla con impercettibili movimenti delle labbra e della lingua. I chanà sono un popolo indigeno dell’Argentina e dell’Uruguay la cui vita è stata intrecciata a quella del fiume Paraná, il secondo più lungo dell’America Latina. I chanà veneravano il silenzio, consideravano gli uccelli i loro guardiani e cantavano ai bambini ninne nanne come questa: utalá tapey-’é, uà utalá dioi (dormi piccolo, il sole è andato a dormire).

Miguelina Yelón raccomandò a suo figlio di proteggere quelle storie tenendole segrete. Solo decenni dopo, da pensionato, Jaime ha fatto una scoperta: nessuno parlava più il chanà. Gli studiosi da tempo lo consideravano una lingua estinta.

“Ho detto: ‘Non è estinta. Io ne sono la dimostrazione’”, racconta Jaime, che oggi ha 89 anni, seduto nella sua cucina spoglia alla periferia di Paraná, una città nella provincia argentina di Entre Ríos. Ha dedicato gli ultimi vent’anni a resuscitare il chanà e a riportare sulle mappe il suo popolo. Per l’Unesco, che ha come missione anche la tutela delle lingue, Jaime è uno scrigno di conoscenza. Insieme a un linguista ha prodotto un dizionario di circa mille parole. Per le persone di origine indigena, Jaime è un punto di riferimento, le ha spinte a riconnettersi con le proprie radici. E per l’Argentina è parte della travagliata storia della colonizzazione e della cancellazione della cultura nativa. “La lingua ti dà un’identità”, dice Jaime. “Quelli che non ne hanno una non sono un vero popolo”.

Strada facendo, Jaime ha anche avuto un po’ di notorietà. È stato protagonista di diversi documentari, ha tenuto una conferenza Ted, ha prestato il volto e la voce a un marchio di caffè ed è comparso in un cartone animato sui chanà.

Oggi c’è un passaggio del testimone con sua figlia Evangelina, che ha imparato il chanà e lo sta insegnando ad altre persone (non è chiaro quanti chanà vivano in Argentina). “Sono state generazioni di silenzio”, dice Evangelina, 46 anni. “Ma non staremo più zitti”.

Secondo gli archeologi le prime tracce della presenza del popolo chanà nelle province argentine di Buenos Aires, Santa Fe ed Entre Rios e in alcune zone dell’attuale Uruguay risalgono a circa duemila anni fa. La prima testimonianza in Europa invece fu lasciata nel seicento da alcuni esploratori spagnoli.

I chanà pescavano, conducevano una vita nomade ed erano abili a lavorare l’argilla. Con l’arrivo dei colonizzatori furono cacciati dalle loro terre, e si ridussero man mano che venivano assimilati nella neonata Argentina. Negli anni successivi il nuovo stato lanciò campagne militari per cancellare le comunità indigene, così da rendere disponibili altre terre per l’insediamento.

Di madre in figlio

Prima che Blas Jaime rivelasse di saper parlare il chanà, l’ultima testimonianza della lingua risaliva al 1815, quando il sacerdote Dámaso Antonio Larrañaga incontrò tre anziani del popolo indigeno in Uruguay e documentò in due quaderni di appunti quello che aveva imparato da loro. Solo uno di quei diari, contenente settanta parole chanà, è sopravvissuto. La miniera d’informazioni che Jaime aveva ricevuto da sua madre, invece, era molto più vasta. Miguelina Yelón era una adá oyendén, cioè una “donna custode della memoria”, perché conservava il sapere della comunità.

Secondo Jaime, solo le donne erano custodi della memoria dei chanà. “Si fondavano sul matriarcato”, spiega. “Poi successe qualcosa che diede nuovamente il controllo agli uomini. Le donne accettarono di cedere il potere, ma ottennero in cambio di restare le sole depositarie della tradizione”.

Miguelina Yelón non aveva bambine alle quali poter tramandare la sua conoscenza (le sue tre figlie morirono da piccole). Perciò si rivolse al figlio. Fu così che Jaime cominciò ad assimilare le storie dei chanà, imparando le parole che descrivevano il loro mondo: per esempio atamá, che significa fiume, o vanatí beáda, che vuol dire albero.

Sua madre lo avvertì di non parlare con nessuno di quello che aveva imparato. “Da quando siamo nati abbiamo nascosto la nostra cultura, perché a quei tempi se si sapeva che eri un indigeno venivi discriminato”, racconta.

Così, sono passati i decenni. Jaime ha avuto una vita intensa: ha fatto il fattorino, ha lavorato in una casa editrice e come rappresentante di gioielli, è stato assunto al ministero dei trasporti, ha fatto il tassista e il predicatore mormone. Quando aveva 71 anni ed era già in pensione, è stato invitato a un evento dedicato alla cultura indigena e si è trovato a raccontare la sua storia. E non ha più smesso.

Uno dei primi a farlo conoscere a tutta l’Argentina è stato Daniel Tirso Fiorotto, un giornalista che lavorava per il quotidiano La Nación. “Sapevo che era una fonte inesauribile d’informazioni”, spiega Fiorotto, che ha rintracciato Jaime e ha pubblicato per la prima volta un articolo su di lui nel marzo 2005.

Dopo aver letto l’articolo di Fiorotto, il linguista Pedro Viegas Barros ha contattato l’anziano. Quell’incontro ha segnato l’inizio di una collaborazione durata anni. Viegas Barros ha scritto diversi articoli sulla riscoperta del chanà, e con Jaime ha realizzato un dizionario che include anche leggende e rituali.

Secondo l’Unesco, nel 2016 (l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati affidabili) almeno il 40 per cento delle lingue del mondo (più di 2.600) erano a rischio di scomparire perché parlate da pochissime persone. Serena Heckler dell’ufficio dell’Unesco a Montevideo, la capitale dell’Uruguay, ha dichiarato: “Siamo consapevoli dell’importanza di quello che sta facendo Jaime”. Secondo Heckler il suo lavoro per salvare il chanà, anche se non è l’unico caso di una lingua creduta morta e poi improvvisamente riapparsa, è davvero eccezionale.

In Argentina, come in altri paesi delle Americhe, i popoli indigeni hanno subìto una repressione sistematica che ha contribuito all’erosione o alla scomparsa dei loro idiomi. In alcuni casi i bambini venivano picchiati a scuola se non parlavano spagnolo, spiega Heckler. Recuperare una lingua rara come il chanà è difficile, aggiunge. “Le persone devono impegnarsi a farla diventare parte della loro identità”, afferma Heckler. “Ha strutture grammaticali completamente diverse dalle nostre, impone di pensare in modo nuovo”.

Da adolescente Evangelina Jaime rifiutava le sue origini, perché a scuola la prendevano in giro e gli insegnanti la rimproveravano perché non le credevano quando diceva di essere una chanà. Ma dopo che il padre ha cominciato a parlare chanà in pubblico, l’ha aiutato a organizzare corsi di lingua in un museo della zona. Così ha imparato il chanà. Ora lo insegna online a studenti di tutto il mondo. Molti di loro sono ricercatori, ma alcuni dicono di avere discendenze indigene. Vorrebbe insegnare la lingua anche a suo figlio, già adulto, così che lui possa continuare a tramandarla.

Ma rieccoci al tavolo di cucina di Jaime, dove l’anziano ha scritto il suo nome nella lingua che sta cercando di mantenere viva. È un nome che riflette il modo in cui ha vissuto; Agó acoé inó, che significa cane senza un padrone.

A un certo punto sua figlia si avvicina lanciando un’occhiata per assicurarsi che l’abbia scritto nel modo giusto. “Ormai è più brava di me”, dice lui ridendo. “Il chanà è salvo”. ◆ fdl

Biografia

1934 Nasce in Argentina. Da bambino impara la lingua chanà dalla madre.
2004 Scopre che il chanà è considerato estinto e decide d’insegnarlo agli altri.
2005 Il quotidiano argentino La Nación pubblica un articolo sulla sua storia e Jaime viene avvicinato dal linguista Pedro Viegas Barros.
2013 Insieme a Viegas Barros scrive un dizionario della lingua chanà.
2018 L’Unesco riconosce il chanà come lingua da tutelare.


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Questo articolo è uscito sul numero 1554 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati