All’ospedale San Filippo Neri, a Roma, le donne che intendono abortire devono imparare a leggere tra le righe se vogliono arrivare nella stanza giusta. Il servizio di interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) però c’è. È indicato all’ingresso di questo grande complesso nel nordovest della capitale. Ma poi le cose si fanno difficili. Superata l’accoglienza c’è solo un foglio A4 appeso al muro in cui c’è scritto in maiuscolo: “Chirurgia ginecologica”. Poi, tra parentesi e più piccolo, “legge 194/78”. È il numero della legge che autorizza l’aborto in Italia e l’anno in cui è entrata in vigore.

Per ritrovare la sigla Ivg bisogna arrivare fino alla porta del reparto di ostetricia e ginecologia. Marina Marceca, la responsabile del reparto, racconta di aver dovuto lottare per imporre questa scelta, scontrandosi con il parere della direttrice dell’ospedale, molto cattolica e contraria a mettere quell’indicazione. Remore semantiche che però non cambiano il modo in cui le pazienti sono trattate al San Filippo Neri. A differenza di molte altre strutture in un paese dove la sanità pubblica è sotto-finanziata, questo reparto ha attrezzature moderne. La mancanza di indicazioni chiare, tuttavia, ricorda la nube di condanna che ancora avvolge l’aborto in Italia, quarantasei anni dopo la sua legalizzazione. Le pazienti sono troppo spesso vittime di umiliazioni inflitte dal personale medico: “Avresti dovuto pensarci prima”, a volte si sentono dire e molte rinunciano ad abortire. E perfino a denunciare questi comportamenti, per paura di essere stigmatizzate.

Tecniche di dissuasione

Le pressioni delle cosiddette associazioni pro vita, di solito cattoliche, giocano un ruolo importante in questo clima di intimidazione. Alcune riescono addirittura a entrare negli ospedali pubblici, con la benedizione delle autorità, per fornire “sostegno emotivo” alle donne e, naturalmente, cercare di convincerle a non interrompere la gravidanza. In Italia nel 2021 (ultimi dati disponibili sul sito del ministero della salute) sono stati praticati 63.653 aborti, ventimila in meno rispetto al 1988 e 171mila in meno rispetto al 1982, l’anno in cui ne sono stati fatti di più. “Oggi ci sono 5,3 interruzioni di gravidanza ogni mille donne tra i 15 e i 49 anni, contro le 9,4 del 2000 e le 8 del 2009”, sottolinea Marceca. “Si tratta di uno dei tassi più bassi in Europa”. La flessione non corrisponde a un aumento del desiderio di avere figli, come dimostra il famoso “inverno demografico” di cui soffre la penisola: con 400mila nascite e 700mila decessi nel 2022, l’Italia potrebbe perdere il 20 per cento della sua popolazione entro il 2070.

Il fatto che ci siano meno interruzioni di gravidanza non è neanche collegato al fatto che verso la fine del 2022 Giorgia Meloni, del partito postfascista Fratelli d’Italia, è diventata presidente del consiglio. Questo calo è cominciato molto prima. Ma l’arrivo al potere di Meloni, che aveva fatto sfoggio della sua maternità durante la campagna elettorale, non ha aiutato a ridurre lo stigma associato all’aborto né le difficoltà che le donne devono affrontare se vogliono intraprendere questa strada. Sempre più spesso si trovano di fronte a un vero e proprio percorso a ostacoli.

Panorama frammentato

La presidente del consiglio può anche ripetere che non toccherà la legge 194 e che deve essere applicata integralmente, ma sono rassicurazioni generiche. Innanzitutto perché il testo della legge, approvata dalla Democrazia cristiana nel contesto teso degli anni di piombo, in alcuni punti è ambigua: nel preambolo afferma che “lo stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana fin dal suo inizio”.

Molti medici diventano obiettori di coscienza per motivi di carriera

E poi, come spiega l’ex senatrice Emma Bonino, Meloni non ha bisogno di attaccare frontalmente la 194 per “svuotarla dall’interno”. A Fratelli d’Italia e ai suoi alleati della Lega, che controllano la maggior parte delle regioni italiane, non mancano i modi per rendere più difficile l’interruzione di gravidanza in un paese in cui la sanità è di competenza regionale.

Il risultato è un panorama del tutto “frammentato”, come spiega l’antropologa Silvia De Zordo, specialista in questioni riproduttive. Ogni regione può interpretare a modo suo le direttive nazionali. È il caso dell’aborto farmacologico: prima del 2020 veniva fatto in ospedale, fino alla settima settimana di gravidanza, e prevedeva un ricovero di tre giorni. A partire da quell’anno è possibile somministrare la pillola abortiva RU 486, in ambulatorio e nei consultori, fino alla nona settimana di gestazione.

Questa direttiva però non è applicata su tutto il territorio nazionale: nelle Marche, regione governata da Fratelli d’Italia e citata come esempio da Meloni in campagna elettorale, il termine continua a essere di sette settimane. I consultori, che hanno sempre meno fondi o che spesso vengono chiusi, sono coinvolti in questa procedura solo in tre regioni: nel Lazio, in Emilia-Romagna e in Toscana.

Corteo di Non una di meno contro la violenza maschile sulle donne Roma, 26 novembre 2022 (Lucia Argiolas)

E anche lì le cose non sono facili, come spiega l’infermiera Graziella Bastelli, attivista a Roma per la pianificazione familiare: “A causa della mancanza di risorse e di formazione, solo quattro dei settanta centri del Lazio hanno la RU 486”.

Nel 2021 solo il 59,6 per cento delle strutture sanitarie autorizzate a praticare l’interruzione di gravidanza offriva effettivamente questo servizio, il 10 per cento in meno rispetto a tre anni prima. Quindi le donne che devono abortire sono costrette a superare scogli enormi, soprattutto a causa della grave carenza di medici disposti ad assisterle. È il fenomeno dell’obiezione di coscienza.

Come in Francia e in altri paesi, la legge italiana permette ai medici di rifiutarsi di fare aborti, condannati dalla chiesa cattolica. In Italia la percentuale di obiettori ha raggiunto proporzioni enormi. Ci sono obiettori anche nei consultori familiari, strutture storicamente legate alla sinistra.

Presidio di Non una di meno per il diritto all’aborto libero, sicuro e gratuito, Roma, 28 settembre 2022 (Lucia Argiolas)

Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità, nel 2021 erano obiettori il 63,4 per cento dei ginecologi, il 40 per cento degli anestesisti, il 32 per cento del personale infermieristico (infermieri, assistenti, eccetera) e alcuni farmacisti, anche se la legge riconosce questa scelta solo ai medici. Secondo Silvia Agatone, presidente della Laiga, un’associazione che difende l’applicazione della legge 194, sono dati fuorvianti: “In alcune strutture ci sono il 90 per cento o addirittura il 100 per cento di obiettori”. Più si va verso sud più la percentuale aumenta. Tanto che in alcune regioni, come il Molise o l’Abruzzo, è ormai quasi impossibile interrompere una gravidanza.

Alcuni diventano obiettori “per convinzione cattolica”, come Maria Chiara D’Alessio, ginecologa del San Filippo Neri, anche se non condanna la legge perché ritiene che “le donne debbano poter scegliere”. Altri, molto numerosi secondo le femministe, lo fanno per motivi di carriera. Lo sa bene Cristina Damiani, che ha lavorato per anni come consulente esterna all’ospedale San Giovanni di Roma. “Dovevo sopperire all’alto numero di obiettori”, ricorda la ginecologa, in pensione dal 2020. “Chi pratica aborti viene sistematicamente screditato. È come se svolgesse una sottoprofessione”.

Visto che i medici non obiettori sono pochi, alcuni di loro finiscono per fare solo interruzioni di gravidanza e si trovano bloccati in un’unica attività poco gratificante. “L’aborto è visto come una cosa sporca e svalutante”, osserva Agatone. “Le donne non tornano più da quel medico. Vogliono dimenticarsene e basta”.

Tutto questo ricade sulle pazienti, come spiega un’educatrice incontrata ad Ancona, nelle Marche. Ylenia (preferisce non dire il cognome), quarant’anni, racconta di aver rischiato di morire a causa dei medici che la stavano curando per un aborto fatto dopo la morte del feto. “Tutti i medici dell’ospedale erano obiettori tranne uno, che ha fatto male il suo lavoro”, racconta la donna, sottolineando la formazione inadeguata degli studenti di medicina in alcune facoltà cattoliche, dove la pratica per l’interruzione di gravidanza non è neppure insegnata. “Sono stata lasciata per settimane con frammenti di placenta che si stavano infettando”, aggiunge. “La ginecologa e il mio medico di base, entrambi obiettori, dicevano che il dolore che provavo era psicologico e che sarebbe passato. Alla fine hanno dovuto arrendersi all’evidenza: stavo per andare in setticemia”.

In caso di aborto terapeutico (oltre le dodici settimane previste dalla legge e fino a cinque mesi), la questione è ancora più complicata. La legge italiana obbliga a rianimare un feto che nasce vivo, e questo può succedere già a 23 settimane. Di conseguenza, molti ginecologi si rifiutano categoricamente di praticare aborti da questo momento in poi. “Se ci sono obiettori cattolici, possono chiamare il rianimatore”, osserva Marina Marceca, del San Filippo Neri. “È successo”.

Da sapere
L’importanza dei consultori
Strutture a cui le donne si rivolgono per avere la certificazione per la richiesta di Ivg, 2021 (Fonte: ministero della salute)

◆ In Italia ci sono circa 1.800 consultori familiari, uno ogni 32.325 residenti, un numero molto al di sotto di quanto stabilito dalla legge 34 del 1996, che ne prevede uno ogni ventimila abitanti. È quanto emerge dall’Indagine nazionale sui consultori familiari 2018-2019 pubblicata dall’Istituto superiore di sanità (Iss).


Anche prima di questo termine, i medici si trovano talvolta in una drammatica impasse. Agatone, ad esempio, ricorda di aver dovuto affrontare l’emorragia simultanea di due pazienti all’ospedale Sandro Pertini di Roma senza alcun aiuto: “Tutto il personale era uscito dalla stanza e io gli correvo dietro gridando: ‘Non ne avete il diritto!’. Se quelle donne fossero morte, la responsabilità sarebbe stata mia”.

Il cimitero dei feti

Alcune pazienti hanno avuto altre sorprese spiacevoli. Alla fine del 2020 una donna romana ha letto il suo nome per puro caso, svoltando in un vicolo del cimitero Flaminio. In questo immenso labirinto di 37 chilometri di strade interne e piccionaie grandi come condomini, la donna si è imbattuta in un cimitero di feti costellato di croci metalliche, su alcune c’erano scritti i cognomi delle donne che avevano abortito.

In Italia, i feti di meno di venti settimane vengono cremati e quelli di più di 28 settimane devono essere seppelliti, ma tra le due categorie c’è una sorta di limbo legale. L’ospedale aveva fatto firmare alla donna, che all’epoca stava molto male, un documento che autorizzava l’ospedale a disfarsi del feto. Il feto è stato poi portato al Flaminio, accompagnato da un modulo di identificazione.

A seguito dello scandalo sollevato da questa scoperta, di cui hanno parlato diversi giornali nazionali, il servizio di pompe funebri ha dovuto rimuovere i nomi delle donne, ma le croci sono ancora lì. Si trovano accanto alle tombe dei bambini, decorate con foto, fiori di plastica e piccoli vasi a forma di scarpette o palloni da calcio. Qua e là, si vedono orsacchiotti tra le lapidi, spazzati via dal vento. Sulle croci di metallo ci sono ancora le etichette, i nomi sono stati sostituiti da numeri e da una data, quella del loro trasferimento. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1547 di Internazionale, a pagina 31. Compra questo numero | Abbonati