Il 1 aprile un attacco aereo israeliano contro un edificio consolare iraniano in Siria ha ucciso un alto comandante della Repubblica islamica, segnando un brusco salto di qualità nella guerra latente in corso tra Israele e l’Iran all’ombra del conflitto nella Striscia di Gaza. Si tratta dell’ultimo assaggio di una più vasta campagna israeliana per colpire i comandanti iraniani e i leader dei gruppi armati fedeli a Teheran, come Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza.

Ma questo attacco è diverso per due motivi, che annunciano una nuova potenziale ondata di violenza nella regione, innescata direttamente dall’Iran oppure dalle forze sue alleate, pesantemente armate. Il primo motivo ha a che fare con il bersaglio. Il generale Mohammad Reza Zahedi, che guidava in Libano e in Siria la Forza Quds, un reparto d’élite dei Guardiani della rivoluzione islamica, è stato l’ufficiale più alto in grado ucciso nell’attacco. Secondo un comunicato dei Guardiani della rivoluzione, sono stati uccisi anche il suo vice e altri cinque ufficiali.

La morte di Zahedi rappresenta il colpo più duro subìto dal potente gruppo dopo l’attacco statunitense che nel gennaio 2020 ha ucciso Qassem Soleimani, capo della Forza Quds, incaricata delle operazioni militari e di intelligence di Teheran all’estero. “Zahedi occupava una posizione di enorme potere”, afferma Charles Lister, esperto di antiterrorismo al Middle East institute di Washington. “Era l’uomo di punta per tutte le attività dei Guardiani e della Forza Quds in Siria e in Libano, da anni”, compresa la fornitura clandestina di armi a Hezbollah, che è considerato il soggetto non statale più armato al mondo.

Il secondo motivo ha a che fare con il luogo. L’attacco ha colpito un edificio consolare accanto all’ambasciata iraniana a Damasco, radendo al suolo la struttura e danneggiando il complesso diplomatico. Secondo funzionari e analisti, l’edificio era usato come centro di comando per le operazioni dei Guardiani della rivoluzione in Siria, che sotto il presidente Bashar al Assad è un’alleata di vecchia data dell’Iran.

Tuttavia, colpire un complesso diplomatico, o anche solo un edificio semiufficiale adiacente, rappresenta un’escalation potenzialmente molto grave. “Le sedi diplomatiche sono considerate spazi nazionali protetti e sovrani. Un attacco in quel luogo è come un attacco al paese stesso”, spiega Dalia Dassa Kaye, esperta di Medio Oriente al Burkle center for international relations dell’università della California di Los Angeles. “Per questo potrebbe essere un punto di svolta”.

Scenari preoccupanti

Dal punto di vista iraniano, Teheran non solo ha perso un importante comandante nella regione, ma ha subìto un bombardamento sul suo territorio sovrano, anche se unicamente in termini diplomatici (c’è da dire che anche l’Iran e i gruppi suoi alleati non si fanno problemi ad attaccare le sedi diplomatiche di altri paesi quando ne hanno voglia). “Ci sarà senza dubbio una forte reazione iraniana”, sostiene Lister. “Quale sarà, e che forma avrà, è una questione ancora aperta”.

La notizia è sconcertante per un’area già scossa da tensioni e conflitti a bassa intensità con la guerra tra Israele e Hamas sullo sfondo. “La regione è in fiamme, e tutto è connesso con quello che succede a Gaza”, ha detto il ministro degli esteri iracheno Fuad Hussein ai giornalisti durante la sua visita a Washington alla fine di marzo. “È molto pericoloso”.

Il governo iraniano ha subito condannato l’attacco israeliano e ha promesso ritorsioni, ma come prevedibile non ha spiegato in dettaglio in cosa consisteranno. L’Iran “si riserva il diritto di mettere in atto una reazione e deciderà il tipo di risposta e la punizione”, ha fatto sapere Nasser Kanani, portavoce del ministero degli esteri.

Sulla base dei comportamenti passati della Repubblica islamica, tra le opzioni ci sono azioni che porterebbero Tel Aviv e Teheran più vicine a una guerra diretta – per esempio missili iraniani contro Israele – oppure rappresaglie più indirette, come colpire presunti obiettivi di intelligence israeliani in Iraq o, ancora, attacchi più duri e frequenti contro Israele lanciati dai gruppi alleati di Teheran.

Uno scenario preoccupante si aprirebbe se l’Iran desse alle milizie alleate in Siria e in Iraq il via libera per riprendere gli attacchi contro obiettivi militari statunitensi, che erano diminuiti all’inizio di febbraio dopo una serie di bombardamenti statunitensi contro le milizie locali sostenute da Teheran. Ma potrebbero ricominciare, avverte Lister: “La reazione dell’Iran agli attacchi di Tel Aviv spesso consiste nel colpire gli statunitensi e non gli israeliani. Dal punto di vista iraniano, sono la stessa cosa”. Un altro degli scenari peggiori è quello di una rappresaglia che degeneri in una guerra aperta tra Israele e Hezbollah, il più potente gruppo armato filoiraniano.

I tentativi di disinnescare le tensioni tra i due lungo il confine meridionale libanese, fatti anche da inviati di primo piano dell’amministrazione statunitense, finora sono naufragati.

Da quando Israele ha invaso Gaza per distruggere Hamas dopo gli attacchi del 7 ottobre, Israele e Hezbollah si sono scambiati colpi in un conflitto a bassa intensità lungo il confine. Anche se nessuno sembra volere una guerra su vasta scala – neppure la milizia libanese – non significa che questa non possa inavvertitamente scoppiare a causa dei continui botta e risposta.

Secondo Kaye “Hezbollah è il più importante sostegno non statale per Teheran, è il suo massimo strumento di deterrenza, quindi il rischio di un’escalation in quell’area è decisamente il più alto”. Lister aggiunge: “Prima dell’attacco del 1 aprile erano aumentate le tensioni al confine settentrionale di Israele. Questo vuol dire che la possibilità di un errore di calcolo oggi è molto più alta di ieri”. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1557 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati