Andy Warhol in Arabia Saudita? Un artista notoriamente gay in un paese in cui l’omosessualità è punita con la pena di morte? C’è da rimanere a bocca aperta di fronte alla mostra Fame, visitabile fino al 16 maggio al Maraya, lo scintillante centro culturale simile a un miraggio costruito nel sito nabateo di Al Ula e diventato la vetrina della modernizzazione a tappe forzate del regno. Per Nora Aldabal, direttrice delle arti e della cultura presso la commissione reale di Al Ula, una struttura creata dal re Mohammed bin Salman, “Warhol ha sostituito Picasso come artista più influente del ventunesimo secolo. Incarna il potere del cambiamento”. Un cambiamento con cui l’autocrazia del golfo Persico vuole migliorare la sua immagine, appannata dall’uccisione nel 2018 del giornalista oppositore Jamal Kashoggi, e spera di apparire convincente al mondo occidentale.

Poca originalità

Compressa in poche sale, la mostra curata da Patrick Moore, direttore dell’Andy Warhol museum di Pittsburgh, il centro della Pennsylvania da cui provengono tutte le opere esposte, non si distingue per originalità. Sulle pareti non c’è niente che riguardi i corpi, il sesso, la morte, tutti argomenti che hanno contraddistinto il lavoro dell’artista morto nel 1987. In un paese che nel 2022 ha eseguito 138 condanne a morte, la mostra non fa alcun riferimento alla serie Death and disaster, in cui Warhol riproponeva in modo insistente il motivo della sedia elettrica e denunciava i soprusi della polizia durante le manifestazioni per i diritti civili.

Tra i numerosi temi possibili offerti dalla copiosa produzione dell’artista, Patrick Moore ha scelto solo il più accessibile, il più tollerabile, il più inoffensivo, quello della celebrità. “Sono stato subito colpito dal desiderio dei giovani sauditi di far parte del mondo globale”, si giustifica il curatore della mostra, che ha esposto i ritratti di star come Elizabeth Taylor e Marlon Brando, o di teste coronate come Carolina di Monaco.

Alcuni screen test, i filmati di pochi minuti che mostrano davanti alla cinepresa i volti dell’attore Dennis Hopper o del cantante Lou Reed, così come delle foto in bianco e nero di Warhol con la sua celebre parrucca bianca, completano l’operazione di marketing saudita nei confronti dell’occidente.

La mostra Fame, Al Ula, febbraio 2023 (Fayez Nureldine, Afp/Getty)

L’obiettivo infatti è quello di persuadere la galassia dei grandi musei internazionali che l’Arabia Saudita è un paese aperto, anche se pratica ancora la sharia, cioè un’interpretazione rigorosa del Corano, e che ha una grande forza finanziaria, visto che i costi di assicurazione per le opere di Warhol sono esplosi dopo il record di 195 milioni di dollari (circa 183 milioni di euro) raggiunto nel maggio 2022 per uno dei suoi celebri ritratti di Marilyn. “Si doveva rassicurare, mostrare che c’erano i mezzi e le condizioni perfette per esporre le opere”, riassume un osservatore locale. “Dopo una mostra del genere, le collezioni di tutto il mondo accetteranno di prestare le loro collezioni all’Arabia Saudita”.

I circa cinquantamila abitanti molto conservatori di Al Ula, dove il tasso di disoccupazione si avvicina al 70 per cento e dove la maggior parte delle donne indossa il velo integrale, non sono i principali destinatari della mostra. Probabilmente non ci andranno mai.

Il vero obiettivo sono gli operatori culturali di Gedda e Riyadh, protagonisti della modernizzazione sociale del paese. “È bellissimo vedere dal vero le opere di Andy Warhol, e non solo nei libri”, si entusiasma la saudita Zahrah Al Ghamdi, che si è formata a Londra e cita spesso l’artista nei suoi corsi di arte contemporanea all’università di Gedda. “I miei studenti mi dicono che si tratta di arte facile, che è marketing, ma io gli rispondo che Warhol ha pensato liberamente, che ha trovato la sua strada e l’ha approfondita”, aggiunge Al Ghamdi.

Fare finta di niente

La questione dell’omosessualità rimane però il problema principale. Non se ne parla né nel catalogo né nelle didascalie né, tanto meno, nei discorsi ufficiali o nelle conversazioni informali. Qui ogni parola è pesata per paura di dure sanzioni. Amnesty international, nel 2022, ha contato quindici condanne comprese tra i dieci e i 45 anni di carcere per persone che avevano espresso le loro opinioni su internet. “Bisogna capire i valori del nostro paese”, afferma una figura del mondo culturale saudita che preferisce mantenere l’anonimato. “La mostra manda dei messaggi subliminali che dovrebbero migliorare la situazione”.

“Francamente la biografia di Andy Warhol non ha nulla di segreto, basta andare su Google per conoscerla”, aggiunge Patrick Moore, che nega di aver subìto pressioni da parte delle autorità saudite. “Anch’io sono gay ma non sono solo questo”, ha detto. “Non si può ricondurre Warhol solo alla sua sessualità. Era anche un imprenditore, un impresario, un editore, un uomo che amava i locali notturni e molto altro”.

Ma Patrick Moore omette di precisare che nel settembre 2022 l’Arabia Saudita ha chiesto a Netflix di ritirare i contenuti che “promuovono” l’omosessualità. E nell’aprile 2022 i cinema sauditi avevano già rinunciato a proiettare il film Doctor Strange nel multiverso della follia di Sam Raimi, dopo aver cercato invano di obbligare la Disney a tagliare una scena in cui una delle protagoniste, lesbica, evocava “le sue due madri”. Due mesi dopo le autorità hanno sequestrato nei negozi della capitale Riyadh dei giocattoli e dei vestiti con i “colori dell’omosessualità”, ritenuti “contrari alla fede musulmana”.

“Una mostra che cancella una parte dell’identità di Andy Warhol per essere in sintonia con il contesto saudita mi lascia perplesso”, commenta Tarek Zeidan, direttore dell’ong libanese per la difesa dei diritti lgbt nel mondo arabo Helem, che abbiamo potuto raggiungere telefonicamente. “Si tratta solo di un’operazione per gettare fumo negli occhi agli occidentali”. ◆ adr

Da sapere
A caccia di contratti

◆ La mostra su Andy Warhol è solo un esempio dell’impegno profuso dall’Arabia Saudita per conquistarsi una credibilità come polo culturale. La monarchia ha l’ambizione di aprire più di duecento musei da qui al 2030 e organizzare fino a quattrocento eventi culturali annuali, ed è disposta a pagare profumatamente. Così francesi e anglosassoni stanno dando vita a una battaglia segreta di influenze per accaparrarsi i ricchi contratti in ballo, cercando in ogni modo di non dare l’impressione di svendersi a una monarchia assoluta e a un regime repressivo. Statunitensi e britannici hanno accumulato un po’ di vantaggio, ma ora gli operatori culturali francesi stanno recuperando il terreno. Le Monde


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Questo articolo è uscito sul numero 1502 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati