Nulla sembrava in grado di rompere la tranquillità di Ofakim. Questo borgo, sperduto tra le dune del deserto del Negev, a pochi passi dalla Striscia di Gaza, si è svegliato la mattina di sabato 7 ottobre, giorno del riposo settimanale ebraico che concludeva la settimana della festività di Sukkot. Eliakim Cohen, un ragazzo atletico con il mento appuntito sottolineato da un pizzetto, era solo nel suo appartamento che si affaccia su una stradina.

Improvvisamente alle 6.30 le sirene hanno rotto il silenzio. Annunciavano una raffica di razzi lanciati dalla Striscia di Gaza, una routine della guerra a cui sono abituati tutti gli abitanti nei dintorni dell’enclave, che conoscono a memoria quanto tempo hanno a disposizione per precipitarsi nel rifugio più vicino, uno degli innumerevoli blocchi di cemento disseminati nel sud d’Israele. Cohen ha un rifugio proprio sotto casa. Però ha scelto di non andarci. Che senso aveva uscire? L’Iron dome, il dispositivo di difesa antiaerea israeliano, intercetta il 90 per cento dei razzi che partono da Gaza. Ma le sirene hanno suonato a lungo quella mattina, quasi un quarto d’ora. Poi è tornata la calma, fino a quando non si sono sentiti gli spari. “Ho visto arrivare quattro persone, armate, con uniformi che somigliavano a quelle dei militari israeliani”, racconta il giovane, che ha ripreso con il telefono quello che succedeva fuori dalla sua finestra. Ha notato che il verde delle mimetiche era meno scuro del solito, e che gli uomini non indossavano stivali o caschi, e imbracciavano dei kalashnikov. Ma perché preoccuparsi, dato che Gaza è a più di venti chilometri in linea d’aria, che le manifestazioni al confine con Israele erano state fermate una settimana prima, e che la zona è considerata una delle più sorvegliate al mondo?

“Due o tre civili, persone del quartiere, gli sono andati incontro. Sono stati uccisi”, racconta Cohen. I miliziani sono avanzati. Da dietro un bidone un poliziotto in borghese, che era uscito per capire l’origine degli spari, ha agitato il berretto in direzione degli uomini armati, gridando: “Polizia, polizia!”. Quelli si sono avvicinati con calma, i fucili puntati a terra, poi uno ha premuto il grilletto e l’agente è morto sul colpo. “Pensava che fossero soldati israeliani. E anch’io lo credevo”, continua Cohen. L’uomo che ha sparato si è impossessato dell’arma del poliziotto e si è accorto di essere osservato attraverso le persiane. Ha fatto fuoco, con altrettanta pacatezza, verso Eliakim, che si è nascosto in fondo alla stanza.

Gli assalitori non si sono fermati. Nella stessa strada sono entrati nel cortile di una casa. Michal Bilya, una giovane madre, ha visto da lontano “i soldati”, come li ha definiti: “Ma quando si sono avvicinati abbiamo capito che non erano israeliani. Dal modo in cui si comportavano, e parlavano arabo tra di loro”. Ai primi spari la famiglia, quattro adulti e sei bambini, è salita al piano di sopra. Improvvisamente, hanno sentito dei colpi sordi al piano terra e hanno visto il fumo. Forse granate? Lanciarazzi? Non importava, bisognava fuggire, c’era la figlia di Bilya di un mese da salvare. Mentre scoppiavano raffiche furibonde, sono passati attraverso una minuscola finestra, sono saltati su un tetto di lamiera, hanno raggiunto il tetto della casa vicina e si sono nascosti tra il muro e il serbatoio dell’acqua calda, uno dopo l’altro. Tranne l’ultimo. Uno degli assaltatori gli ha sparato quando aveva solo una gamba fuori. Lui si è fermato, si è afflosciato, poi è caduto. “Era mio fratello”, dice Bilya. È finito sul tetto di lamiera e si è dissanguato, formando una pozzanghera. Gli assalitori se ne sono andati, senza voltarsi. La famiglia è rimasta nascosta per quattro ore, fino a mezzogiorno, sotto il sole ancora cocente di questo ottobre, coperta dalla polvere e dalla cenere, ricorda Bilya con la voce rotta per la morte del fratello.

Qualcosa di inedito

Non era finita. I miliziani sono tornati indietro e hanno fatto irruzione nella casa del poliziotto che avevano appena ucciso per prendere in ostaggio una coppia, David e Rachel Edri. In altre case si sentivano esplosioni e sparatorie. Ofakim, con i suoi numerosi rifugi, era pronta per le raffiche di razzi. Ma non per un assalto di miliziani palestinesi che l’hanno rastrellata alla ricerca di bersagli da uccidere. Per quasi ventiquattr’ore hanno seminato il terrore. Stanati uno dopo l’altro, gli ultimi assalitori a morire nella notte tra il 7 e l’8 ottobre sono stati quelli che avevano guidato la cattura degli ostaggi. I miliziani sono arrivati da Gaza a bordo di due pick-up, abbandonati sulla strada principale per questo viaggio senza ritorno, in un’offensiva di Hamas che sta sconvolgendo la storia del conflitto israelo-palestinese. Il partito islamista ha lanciato un’invasione via terra, mare e aria, con dei parapendii motorizzati. Se si tralascia un attentato compiuto da due uomini del Fronte popolare di liberazione della Palestina-Comando generale, che una notte del 1987 partirono con due deltaplani dal sud del Libano, questa è la prima vera operazione aerea della storia militare palestinese. Il bilancio è sconvolgente: almeno 1.200 morti e più di 2.700 feriti, un centinaio di persone sequestrate (dati aggiornati all’11 ottobre). Qualcosa d’inedito nella storia di Israele.

L’esercito israeliano ha contato ventinove punti d’incursione lungo una barriera ritenuta impenetrabile. Forse è stata furtivamente sabotata durante le manifestazioni che si sono svolte per tutto il mese di settembre, nel pieno delle festività ebraiche? Sembra che le difese fossero inesistenti. I combattenti sono svaniti sulle strade che circondano l’enclave, e sono ricomparsi in una decina di località seminando il panico. Sono piombati nel mezzo di un festival di musica elettronica dove c’erano ancora centinaia di persone a ballare nelle prime ore del mattino e hanno fatto irruzione a Sderot, una città di medie dimensioni che si trova proprio accanto a Gaza. Si sono impossessati di un commissariato, “un duro colpo”, ha ammesso Richard Hecht, portavoce dell’esercito israeliano. Hanno attaccato le basi militari di Reim e Zikim. Ma soprattutto sono penetrati nell’immenso checkpoint di Erez, che con le sue file di muri di cemento in successione e le alte torri era uno dei simboli del blocco israeliano dell’enclave, cominciato nel 2007. Da lì transitavano ancora, una settimana prima, i circa 18mila abitanti della Striscia autorizzati a lavorare in Israele.

Mohammed Deif, il comandante delle Brigate al Qassam (il braccio armato di Hamas), ha annunciato l’inizio dell’operazione “Diluvio di Al Aqsa”. Il nome è un riferimento alla Spianata delle moschee, o monte del Tempio per gli ebrei, a Gerusalemme, terzo luogo santo dell’islam, di cui Hamas si presenta come il protettore. “Il primo attacco, che ha colpito le posizioni, gli aeroporti e le fortificazioni militari del nemico, ha superato i cinquemila missili”, ha affermato Deif. Ha esortato i palestinesi di Israele e della Cisgiordania a “mettere il fuoco sotto i piedi degli occupanti”. E ha invitato anche il Libano, l’Iraq e la Siria a partecipare all’assalto. Considerato che ad aprile alcuni razzi erano stati lanciati su Israele dal territorio libanese, questa minaccia è da prendere sul serio. A Gaza i miliziani della Jihad islamica hanno annunciato di essersi uniti all’operazione lanciata da Hamas.

Con queste azioni i combattenti di Hamas hanno cambiato i rapporti di forza sul campo. Intorno a Gaza l’indifferenza nei confronti dei razzi ha lasciato il posto alla paura per i miliziani infiltrati. Ofakim rappresenta il punto più avanzato dell’offensiva. Anche se la città è stata riconquistata, nessuno osa uscire. Alcuni abitanti rimproverano all’esercito la sua inazione. Altri, più radicali, lo definiscono complice. I soldati che cercavano d’impedire agli abitanti di Ofakim di smontare uno dei pick-up dei miliziani palestinesi si sono sentiti ribattere: “Lasciateci fare! Voi non c’eravate durante l’attacco! Non ci avete protetto!”. Nessuno capisce come sia potuto accadere un disastro di questa portata. “Israele si è svegliato in una mattina terribile”, riassume Richard Hecht.

Cosa ancora più grave per lo stato ebraico, Hamas ha preso decine di ostaggi, dotandosi di uno strumento di pressione formidabile nei confronti del nemico. Sono stati portati via anche dei cadaveri. Fatto eccezionale, l’esercito ha ammesso i rapimenti, anche dei suoi soldati. Le forze armate israeliane cercano di evitarli a ogni costo. Negli anni ottanta elaborarono perfino il “protocollo Hannibal”, che concede alle truppe d’intraprendere qualunque azione necessaria per impedire il sequestro di un militare – “meglio un soldato morto che un soldato prigioniero” – che potrebbe essere scambiato con centinaia se non migliaia di detenuti palestinesi.

Palestinesi sfondano la barriera al confine tra la Striscia di Gaza e Israele, il 7 ottobre 2023 (Mohammed Fayq Abu Mostafa, Reuters/Contrasto)

Sembra che la procedura sia stata usata per l’ultima volta nel conflitto tra Hamas e Israele del 2014, quando furono catturati Oron Shaul e Hadar Goldin, dichiarati poi morti. Carri armati, artiglieria e caccia bombardarono l’area in cui Goldin era stato rapito il 1 agosto 2014, causando la morte di circa 120 abitanti di Gaza secondo fonti palestinesi. Si tratta di uno degli episodi più sanguinosi di quella guerra.

Le Brigate al Qassam, tramite il portavoce Abu Obeida, suggeriscono che il protocollo sia stato riattivato. In una dichiarazione rilasciata l’8 ottobre il gruppo ha annunciato che in seguito al rapimento di un gruppo di prigionieri “il nemico ha ucciso un certo numero di suoi soldati dopo la cattura”.

Sostegno psicologico

La risposta israeliana è cominciata già il 7 ottobre. A un incrocio non lontano dalla base aerea di Tel Nof alcune centinaia di veicoli erano parcheggiati a bordo strada. Alcuni riservisti si aggiustavano la divisa prima di presentarsi in servizio. Secondo il portavoce Richard Hecht hanno risposto all’appello in migliaia, anche alla frontiera libanese e nella Cisgiordania occupata. Al “Diluvio di Al Aqsa” l’esercito israeliano ha risposto con l’operazione “Spade di ferro”.

A sud di Sderot l’esercito israeliano è avanzato poco alla volta, lasciando vedere le devastazioni dell’incursione di Hamas. Sulla superstrada regnava la desolazione: alcune auto erano abbandonate sul ciglio della strada, contro la barriera centrale; alcune erano mitragliate; altre erano incendiate; si vedevano tracce di sangue sull’asfalto. Le forze di sicurezza hanno organizzato delle ronde per cercare gli uomini di Hamas nascosti dietro le linee israeliane.

I miliziani hanno continuato ad attaccare. Il 9 ottobre un ufficiale israeliano ha detto che la sua compagnia ne aveva uccisi due nei pressi della località di Mefsalim. I cadaveri giacevano ancora a terra, vicino al pick-up. Poco lontano, verso Gaza, due carri armati si muovevano sollevando un’immensa nube di polvere, che sembrava fondersi con il pennacchio scuro che sovrasta l’enclave. Fissavano la città con i loro cannoni. Qualche minuto prima un immenso convoglio di una trentina di carri armati trasportati su camion, talmente lungo da impiegare quindici minuti a passare, si dirigeva verso sud.

Anche le ambulanze della Magen David Adom, il servizio di emergenza del paese, giravano alla ricerca dei feriti o dei morti. I soccorritori avevano appena chiuso in un sacco per cadaveri il corpo di un tassista il cui veicolo crivellato di proiettili era uscito violentemente di strada. “È stato ucciso ieri, ma lo stiamo raccogliendo solo oggi. Ci sono cadaveri ovunque. Riceviamo chiamate da tutto il paese. Alcune persone cercano i loro cari. Noi facciamo di tutto per ritrovarli”, dice un infermiere.

Perché, oltre ai morti e agli ostaggi, ci sono i dispersi. Le forze israeliane hanno aperto il loro servizio investigativo nel quartiere di Airport city, un centro commerciale vuoto e immacolato non lontano dall’aeroporto. L’annuncio è stato diffuso a mezzanotte del 7 ottobre sulla radio pubblica. “Alle 4 del mattino c’erano già centinaia di persone. Per un disperso possono venire decine di parenti o amici e ci sono molte richieste. Chiediamo alle persone di portare foto e cose che possono servire per il test del dna, come spazzolini da denti o vestiti. Se c’è una correlazione vengono passate alla polizia. Vogliamo incoraggiare i cittadini a venire. Qui troveranno un po’ di supporto”, dice un ufficiale che chiede di restare anonimo, come tutte le persone intervistate intorno al centro.

“Sto cercando due ragazzi. Non so cosa gli sia successo. Ho le loro magliette e un rasoio da barba”, dice una ragazza, con gli occhi spenti dalla stanchezza. Come tutti gli altri visitatori, prima ha parlato con un assistente sociale. Uno di loro, che lavorava già durante la seconda intifada (2000-2005), spiega il suo ruolo: “Lascio che raccontino la loro storia. Valuto i bisogni e se devono ricevere assistenza li indirizzo all’aiuto psicosociale. Israele non ha mai subìto un trauma simile. In un giorno centinaia di persone sono state uccise. Non avevamo mai visto niente del genere. Neanche cinquant’anni fa, con la guerra del Kippur. Erano i soldati a essere presi di mira, non i civili”. A quasi cinquant’anni da quel conflitto, in cui Israele fu colto di sorpresa da un attacco coordinato di Egitto e Siria che dimostrò che lo stato ebraico non era invincibile, lo scenario sembra ripetersi. Ma l’aggressione del 2023 si è verificata nel cuore del suo territorio, e la prima vittima è stata la popolazione.

Nel cupo centro commerciale l’unità di ricerca dei dispersi risplendeva debolmente, come un faro lontano. Era una serata tranquilla e calda, senza troppi lanci di razzi. Hamas ne ha lanciati parecchi. Ora conserva le sue scorte. La guerra sarà lunga. ◆ fdl

Cronologia
Dal terrorismo alla guerra

◆ All’alba del 7 ottobre, dopo aver attraversato la barriera di confine dalla Striscia di Gaza, centinaia di miliziani di Hamas hanno assalito vari luoghi nel sud d’Israele. L’offensiva è stata condotta via terra, aria e mare, e Hamas ha sparato migliaia di razzi. Il bilancio degli attacchi è di più di 1.200 morti e 2.700 feriti. Decine di persone risultano disperse o in ostaggio (dati aggiornati all’11 ottobre).
L’esercito israeliano ha reagito bombardando la Striscia di Gaza e ha proclamato un “assedio totale” del territorio, sotto embargo dal 2007, sospendendo le forniture d’acqua, elettricità e generi alimentari. Secondo le autorità locali, i raid israeliani hanno ucciso più di mille persone e ne hanno ferite 4.500.
◆ L’8 ottobre è cominciato anche uno scambio di colpi tra Israele e Hezbollah, il movimento libanese filo-iraniano alleato di Hamas. Il 9 ottobre tre soldati israeliani e tre miliziani di Hezbollah sono morti negli scontri al confine. In risposta al lancio di razzi, l’esercito israeliano ha colpito anche la Siria.
◆ Il 9 ottobre l’Egitto ha chiuso il valico di frontiera di Rafah, l’unico punto di passaggio per la popolazione della Striscia di Gaza, colpito dai raid israeliani.
◆ Il presidente statunitense Joe Biden ha affermato il 10 ottobre che aiuterà Israele a difendersi dal “male assoluto”. Josep Borrell, alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri, ha ribadito che Israele ha il diritto di difendersi, ma deve rispettare il diritto internazionale, e che i paesi dell’Unione manterranno gli aiuti ai palestinesi. L’Onu ha dichiarato che l’assedio totale di Gaza viola il diritto internazionale.
◆ Il 10 ottobre Israele ha ripreso quasi del tutto il controllo del confine con la Striscia di Gaza e ha schierato migliaia di soldati. Si teme un attacco via terra.
◆ L’11 ottobre il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il capo dell’opposizione Benny Gantz hanno annunciato un accordo per creare un governo di unità nazionale per la durata della guerra. Afp


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Questo articolo è uscito sul numero 1533 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati