Nick Wilson, studente del secondo anno, aveva scelto la Cornell university di Ithaca, nello stato di New York, per raffinare le sue competenze da attivista. Nel saggio che aveva allegato alla domanda d’iscrizione parlava del suo impegno in una campagna dei Democratic socialists of America a favore di una legge per tutelare il diritto a organizzarsi. Entrato al campus, aveva trovato vari indizi del fatto che la Cornell condivideva il suo impegno, non solo verso l’attivismo, ma verso tutte le forme di protesta militante. In particolare, una targa commemorava l’occupazione armata del 1969 della Willard Straight hall (la sede del sindacato degli studenti).

La Cornell ha avvolto quell’evento in un’aura di romanticismo: la biblioteca universitaria ha pubblicato un volume intitolato Willard Straight hall occupation study guide e c’è stato un convegno sulla protesta finanziato dalla presidenza della facoltà. L’università ha più volte proiettato il documentario sull’occupazione Agent of change. Nel 2019 aveva commemorato il cinquantesimo anniversario dell’evento. Sul giornale studentesco Cornell Chronicle era uscito un articolo intitolato: “L’anniversario dell’occupazione ispira un progresso continuo”.

Come Wilson ha avuto modo di appurare, la celebrazione delle proteste del passato non ha impedito all’ateneo di reprimere le manifestazioni filopalestinesi di questi giorni. Wilson è stato sospeso esattamente per lo stesso motivo che l’aveva spinto ad andare a studiare alla Cornell. Ora non gli resta che riflettere su questa ipocrisia.

Gli amministratori delle università statunitensi sono in difficoltà. “Le proteste sono situazioni che possono cambiare da un momento all’altro”, osserva Stephen Solomon, docente di diritto e direttore di First amendment watch, un osservatorio sulla libertà d’espressione con sede a New York. “Ma le università devono distinguere tra i discorsi tutelati dal primo emendamento e quelli che non lo sono”. Alcuni interventi dei manifestanti potrebbero non essere protetti dal primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti, ma molti invece lo sono.

La sfida per gli atenei non riguarda solo il rispetto della legge, ma anche la loro retorica. Da tempo i campus al centro dell’attuale repressione di polizia cercano di presentarsi come baluardi dell’attivismo e della libertà di pensiero. La Cornell è una delle tante università che hanno promosso la loro storia di militanza studentesca quando gli conveniva, per poi punire gli attivisti quando non gli conveniva più. Le università che vogliono attirare gli studenti puntando sulle opportunità di dimostrare il proprio impegno, ora li stanno sospendendo. E chiamano la polizia.

Sconvolti, ma non sorpresi

Gli interventi degli agenti richiesti dalle università ai danni degli studenti fanno piazza pulita dell’immagine progressista coltivata con tanta attenzione da college privati d’élite come la Columbia university, la Emory university di Atlanta e la New York university (Nyu), o delle altrettanto finte credenziali in materia di libertà d’espressione di atenei pubblici in stati conservatori come l’Indiana university o l’Università del Texas a Austin. Ma non solo: svelano cosa sono diventate oggi queste istituzioni.

Negli ultimi anni gli amministratori hanno fatto di tutto per reclutare studenti e docenti appassionati di giustizia sociale in base alla promessa implicita, e spesso esplicita, non solo di sostenere ma addirittura di incoraggiare l’attivismo. Oggi scoprono con stupore che i loro studenti e dipendenti ci avevano creduto. Invece di cercare di capire il ruolo che hanno avuto nel creare questo pantano, i parrucconi nelle loro torri d’avorio hanno deciso di schiacciare quelli di cui dovrebbero prendersi cura.

Ho parlato con una trentina di persone tra studenti, professori e amministratori di otto università pubbliche e private degli Stati Uniti. Molte si sono dette “sconvolte, ma non sorprese” dell’ipocrisia mostrata dai college dove lavorano o studiano.

Joseph Slaughter, docente di inglese e direttore esecutivo dell’istituto per lo studio dei diritti umani della Columbia, dopo i recenti arresti ha parlato con gli studenti delle proteste del 1968. Ragazzi e ragazze avevano la sensazione che l’università si fosse fatta pubblicità attraverso il suo passato. “Parecchi mi hanno detto che in parte erano stati i fatti del 1968 a convincerli a frequentare la Columbia”, spiega. “Hanno parlato di come l’università presenti la sua lunga storia di attivismo studentesco. L’hanno definita parte del brand”.

Quando ad aprile le manifestazioni filopalestinesi hanno cominciato a far salire le tensioni nel campus, gli amministratori erano ben felici di ritrarre le proteste come parte della cultura di militanza studentesca della Columbia.

Non erano gli unici. La Nyu adora strombazzare la sua storia di radicalismo e promette agli studenti “un mondo di opportunità per fare attivismo”. Un articolo pubblicato a marzo sul sito dell’università, “Fai la differenza attraverso l’attivismo alla Nyu”, promette agli studenti “miriadi di occasioni per mettere alla prova il loro impegno politico” e “risorse e occasioni per innescare l’attivismo e il cambiamento, dentro e fuori dal campus”.

Di recente l’ateneo ha fatto delle “assunzioni di gruppo” – per rispondere a esigenze come l’antirazzismo, la giustizia sociale e la rappresentanza indigena – che hanno contribuito a diversificare il corpo docenti. Alcune di queste nuove leve hanno trascorso una notte in cella, arrestate proprio per quell’attivismo che le ha rese appetibili per la Nyu.

Gli studenti di diritto con cui ho parlato erano particolarmente critici. Una ragazza mi ha raccontato di essersi iscritta alla Nyu perché attirata dalla sua reputazione di ateneo progressista, con un’alta percentuale di insegnanti favorevoli all’abolizione del carcere. Quando la polizia è piombata sull’accampamento degli studenti, non ha potuto fare a meno di notare un paradosso.

Queste contraddizioni non si limitano agli atenei intorno a New York. Sono stato particolarmente turbato dalla risposta della polizia alla Emory university di Atlanta, un’altra istituzione che si vanta delle proteste dei suoi studenti nel passato. I docenti con cui ho parlato – tra i quali due sono stati arrestati, la professoressa di filosofia Noelle McAfee ed Emil’ Keme, che insegna inglese e studi indigeni – hanno descritto scene agghiaccianti: uno studente sbattuto per terra, un’anziana che non riusciva a respirare per i gas lacrimogeni, un collega con segni lasciati dai proiettili di gomma.

Senza pensare a domani

Quasi tutte le persone con cui ho parlato erano convinte che la risposta delle università fosse determinata dalle pressioni di donatori, ex studenti, politici o da una combinazione di queste tre categorie. Non pensano siano state motivate da timori seri e razionali sulla sicurezza di ragazzi e ragazze. Al contrario, la maggior parte è fermamente convinta che l’arrivo della polizia abbia reso la situazione più pericolosa sia per i manifestanti filopalestinesi sia per quelli filoisraeliani. Jeremi Suri, che insegna storia all’Università del Texas a Austin, precisa di non essere politicamente vicino ai manifestanti, ma di aver pregato il preside e i poliziotti a cavallo di non caricare. “Era come se sul campus fosse arrivato l’esercito russo”, commenta Suri. “Ho osservato la protesta per 45 minuti, massimo un’ora. Sono molto sensibile all’antisemitismo, ma non è stato detto nulla del genere. Non c’era motivo per non lasciarli urlare finché non avessero perso la voce”.

Come mi ha detto un dirigente di un importante centro di ricerca universitario, lo scontro a cui assistiamo mostra quanto poco i rettori capiscano le comunità universitarie e gli studenti che le popolano. “Quando ho visto cosa succedeva alla Columbia, ho pensato: ‘Non hanno considerato domani’”, dice. “Quando li affronti, gli attivisti di diciott’anni non arretrano, ma raddoppiano la posta”.

Era successo nel 1968 e sta succedendo di nuovo ora. Il 30 aprile, in risposta ai metodi draconiani adottati dal loro ateneo, gli universitari della Columbia hanno preso possesso della Hamilton hall, che era stata la sede dell’occupazione del 1968 e ora è stata ribattezzata Hind’s hall in onore di una bambina di sei anni uccisa a Gaza. Hanno chiamato in causa l’ipocrisia dell’ateneo in un post su Instagram: “Questa escalation è in linea con gli storici movimenti studenteschi del 1968, che all’epoca la Columbia represse e oggi invece celebra”. L’università ha reagito come allora: nel corso della stessa giornata, la polizia di New York ha fatto un’incursione notturna nel campus, arrestando decine di persone.

Per i professori, gli studenti e gli amministratori che ho intervistato, l’ipocrisia non è passata inosservata e la repressione non sta funzionando, anzi sta peggiorando le cose. La resistenza nei campus si è diffusa e ha coinvolto insegnanti e studenti che inizialmente non avevano un’opinione chiara sulle proteste e, in qualche caso, erano favorevoli a Israele. Si sono detti turbati da quelle che giudicano violazioni della libertà di espressione, un’erosione dell’autonomia delle facoltà e reazioni eccessive degli amministratori. Soprattutto, sono stufi dell’evidente falsità di queste istituzioni, che si sono date la loro zappa progressista sui piedi, mentre la forza inarrestabile di anni di retorica moralista e atteggiamenti pseudoradicali si scontra con la caparbietà di studenti che hanno preso quelle parole alla lettera. ◆ gim

Tyler Austin Harper è docente di studi ambientali al Bates college, negli Stati Uniti, e un collaboratore dell’Atlantic.

Questo articolo si può ascoltare podcast di Internazionale In copertina. Disponibile ogni venerdì nella nuova app di Internazionale e su internazionale.it/podcast.

In tutto il mondo

◆ Nelle ultime settimane le manifestazioni in solidarietà con i palestinesi della Striscia di Gaza si sono diffuse dai campus degli Stati Uniti alle università di Europa, Asia e Medio Oriente. Una richiesta che fanno molti studenti è interrompere la collaborazione con Israele o le aziende che hanno legami con lo stato ebraico. Nei Paesi Bassi il 6 maggio la polizia ha sgomberato con violenza un accampamento all’università di Amsterdam e arrestato 169 persone. In Germania gli agenti sono intervenuti a Lipsia, dov’erano stati occupati alcuni spazi dell’università, e alla Freie Universität di Berlino, dove un centinaio di studenti aveva montato delle tende. Nel Regno Unito ci sono state manifestazioni in più di dieci atenei, da Edimburgo a Oxford e Cambridge. Nel resto d’Europa sono state registrate mobilitazioni alla Sorbona e a Sciences Po, a Parigi; al Trinity college di Dublino; in Svizzera, in Danimarca, in Finlandia e in Spagna. In Italia il 5 maggio gli studenti dell’Alma mater di Bologna si sono accampati nel centro della zona universitaria, e lo stesso hanno fatto quelli della Sapienza a Roma. In Australia sono almeno sette le università coinvolte, mentre in Canada almeno cinque. Si sono mobilitati gli studenti della Jawaharlal Nehru university di New Delhi, in India, e quelli dell’American university di Beirut, in Libano, che il 30 aprile hanno sfilato sventolando bandiere palestinesi. Cnn, Guardian, Lapresse


Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1562 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati