08 marzo 2016 10:28

Ha deciso di andare a Madrid per incontrare Esther, la donna che si occupava di lei quando era neonata. È nervosa. Vuole filmare tutto, registrare tutto. È come una bambina che ha deciso di raccogliere tutta la sabbia della spiaggia, fino all’ultimo granello, con una paletta. Parto da Atene per accompagnarla. Divento un secchiello nel quale potrà mettere la sabbia che non le entra nelle tasche.

Sono anni che cerca Esther, senza trovarla: la conosceva solo con il nome che aveva quando era la sua balia e aveva appena vent’anni. L’ha cercata prima nel villaggio della Galizia in cui abitava all’epoca. Ma una persona è come un fiume che scorre e cambia, e nessuno può bagnarsi per due volte nella sua acqua.

Attribuiamo alla madre lo spazio casalingo, naturalizzando e sacralizzando il legame materno

Dopo quasi cinquant’anni la ragazza è diventata una donna anziana, ha cambiato nome, casa e città. S’è sposata, ha divorziato e s’è trasferita in un complesso prefabbricato che la febbre del mattone ha eretto in pieno deserto della Murcia. Esther spiegherà più tardi che il complesso sembra morto, che nei dintorni non c’è niente per chilometri, ma che lei ci vive felice perché ogni mattina un uccellino viene a salutarla alla finestra.

Le due donne si sono date appuntamento in un albergo di viale America. Entrambe sono vestite di bianco, come se festeggiassero una nascita. Quando si ritrovano sembra che il pavimento dell’albergo si muova sotto il loro abbraccio e il resto del mondo rimanga al di fuori del loro cerchio. “Piccola mia, sei la mia piccolina, la mia bambola, ti lavavo, ti vestivo, ti davo da mangiare, ti mettevo a letto. Tutto tranne che metterti al mondo”, dice Esther facendo un gesto che va dalla sua pancia verso le sue gambe. “Ma ho fatto tutto il resto”.

Io e i figli biologici di Esther osserviamo l’incontro, in disparte, restando fuori del cerchio magnetico. Questa stretta ha la forza di un manifesto: rivela che esistono legami che non sono riconosciuti né socialmente né legalmente. Questa stretta è un monumento vivente alla memoria della balia ignota.

Uno spazio ambivalente

L’invenzione all’inizio dell’ottocento della figura sociale della madre biologica-domestica e la definizione del legame materno come unico legittimamente costitutivo ci ha costretto a cancellare l’importanza di altre relazioni. Attribuiamo alla madre lo spazio casalingo, naturalizzando e sacralizzando il legame materno. Ma la madre moderna non era altro che una maschera dietro la quale si nascondevano altre madri, alle quali neghiamo il riconoscimento di un legame. Costantemente tormentata dalla colpa di aver disertato la casa, la madre biologica si trova al contempo nell’obbligo di prendersi cura dei bambini quando non è presente introducendo una figura sostitutiva, e di sopprimere – affettivamente e politicamente – la presenza di questa sostituta.

In O Édipo brasileiro: a dupla negação de gênero e raça l’antropologa brasiliana Rita Laura Segato studia non solo le relazioni politiche e psicologiche che si creano tra una figlia e sua madre ma anche tra la balia e il neonato di cui si occupa, e i legami che il bambino crescendo intrattiene con sua madre e la sua balia. Negli Stati Uniti, in età coloniale, e nelle nostre società neocoloniali, il legame con la balia è segnato da relazioni d’oppressione razziale e di classe che separano madri e nutrici.

Il neonato si trova allora in uno spazio ambivalente, conteso tra cura e lotta di classe o di razza, nel quale affetto e violenza si confondono. Nonostante sia rappresentata come passiva e amorevole, la madre biologica, per diventare madre unica, deve ricorrere a una violenza di classe e di razza che le permette di disciplinare e sottomettere la balia, e di rescindere il legame che quest’ultima stabilisce col lattante.

Il corpo sociale ci accoglie con molte braccia, senza le quali non potremmo sopravvivere

Una famiglia d’intellettuali di sinistra della piccola borghesia catalana si trasferisce in Galizia qualche anno prima della morte di Franco e cerca una ragazza che si occupi dei figli. La madre biologica sta scrivendo una tesi di dottorato in scienze politiche sul comportamento elettorale negli ambienti rurali. In seguito diventerà la prima rettora di un’università pubblica dello stato spagnolo. La balia non ha ricevuto un’istruzione universitaria e non è mai uscita dal suo villaggio.

Quando la famiglia torna a Barcellona, la balia, considerata semplice manodopera, una sorta di macchina per dispensare cure con la quale non bisogna stabilire relazioni politico-affettive, sarebbe dovuta rimanere sullo sfondo ed essere dimenticata per sempre. In questo caso è la madre biologica che ha reclamato l’esistenza di Esther, incitando Itziar a cercarla. Per trovarla le sono occorsi più di quarant’anni.

Dire che abbiamo solo una madre è una menzogna. Il corpo sociale ci accoglie con molte braccia, senza le quali non potremmo sopravvivere. Qualsiasi bambino borghese ha un’altra madre invisibile, ogni bambino della borghesia catalana ha un’altra madre nascosta – galiziana, andalusa, filippina o senegalese – come ogni bambino bianco cresciuto negli Stati Uniti all’epoca della segregazione razziale ha avuto un’altra madre nera, nell’ombra. La finzione della stabilità dell’identità razziale o nazionale può costruirsi solo eliminando questa filiazione meticcia e bastarda.

È venuto il momento di decolonizzare le nostre madri, onorare i molteplici ed eterogenei legami che ci hanno costruito e che ci tengono vivi. Esther e Itziar hanno già avviato il compito della decolonizzazione.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano francese Libération.

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