21 maggio 2015 10:48

Forma o sostanza? Questo dualismo, vecchio come il mondo, è alla base delle reazioni contrastanti della critica nei confronti di Youth – La giovinezza, il nuovo film di Paolo Sorrentino. Youth, presentato in concorso al festival di Cannes, è stato accolto da applausi e fischi ieri alla proiezione per la stampa. I due schieramenti sono facili da identificare: c’è chi grida al capolavoro, vedendo nelle visioni sempre più suadenti di Sorrentino una nuova forma di opera lirica in veste cinematografica, e chi invece definisce il film come una sequenza di scene vuote, ma montate in modo abile per conquistare il pubblico.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

È lo stesso dibattito che era nato per La grande bellezza. Ma in questo caso la questione si amplifica, perché non c’è il grande mito della decadenza romana a sostenere una storia che fluttua in una specie di limbo terrestre (un centro benessere svizzero con personale e clientela internazionale) ed è stato scritto in lingua inglese.

“Un’opera divertente ma minore”, l’ha definita Peter Bradshaw sul Guardian. Nella sua recensione per Indiewire, Jessica Kiang ha descritto il film come “un lago infinito di belle fesserie”. Ma le recensioni positive non sono mancate: c’è chi ha parlato di “finzione meravigliosa, che si realizza quando il sogno del cinema viene condiviso da un artista e chi guarda” (Boris Sollazzo, Giornalettismo). Entusiasta il commento di un decano dei critici statunitensi, Todd McCarthy, che su Hollywood Reporter descrive il film come “un banchetto per sibariti, un’immersione a tutto corpo nei piaceri del cinema”.

Parliamoci chiaro: Youth è grande cinema. Resistere alla sua seduzione è un atto di masochismo, un tormento di sant’Antonio (c’è molto di cattolico, nell’opera di Sorrentino). O forse ha qualcosa a che fare con l’ascetismo del monaco buddista ospite del centro benessere, che si dice sappia levitare.

Youth – La giovinezza racconta la storia di Fred e Mick, due amici anziani, un compositore e un regista, che si ritrovano in una clinica svizzera per una vacanza. La vicenda è raccontata con una carrellata di quadri viventi, uno sculettare di tagli (nei film di Sorrentino, il montaggio è tutto) che danno il viagra a ogni nuova scena per non farci annoiare mai. Così ecco che compare un mangiafuoco, oppure il sogno di un incontro con una giovane maggiorata in una piazza San Marco sott’acqua. Ma questa ricerca continua dello stupore visivo, della canzone perfetta (c’è perfino un videoclip finto della cantante Paloma Faith, tutto girato da Sorrentino) non è fine a se stessa. È anche il tema del film.

Youth – La giovinezza è retto da un Michael Caine introverso ma determinato nei panni di Fred, un compositore britannico così convinto di non voler più lavorare da rifiutare una proposta dalla regina Elisabetta. Accanto a lui, un Harvey Keitel un po’ meno bravo, ma comunque molto credibile, interpreta Mick, un regista che ha deciso di continuare a lavorare per fare un ultimo film in grado di riscattare una carriera di compromessi artistici.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Intorno ai due protagonisti troviamo diversi personaggi minori, dalla figlia piagnucolona di Fred (una convincente Rachel Weisz) a un grasso sosia di Maradona con un tatuaggio di Marx sulla schiena, che gira seguito da una compagna assistente con la bombola d’ossigeno.

Se La grande bellezza era La dolce vita di Paolo Sorrentino, Youth è il suo Otto e mezzo. Il resort svizzero tra le montagne, dedicato alla lotta all’invecchiamento, diventa il teatro di uno spettacolo di sguardi incrociati tra i vecchi, i giovani e i quarantenni (come Sorrentino). Tutti si studiano, sono contemporaneamente osservatori e osservati. Hanno paura di perdere la memoria, ma sono consapevoli che la memoria si accumula vivendo, mentre questa esistenza sospesa forse non è vita vera.

L’unico rifugio è la bellezza, il gusto, il brano musicale eseguito bene, la scena finale della sceneggiatura che Mick sta scrivendo con i suoi collaboratori, che dev’essere perfetta, deve riscattare tutto. È la forma che ci salva dal baratro, la superficie che ci consola. Ed è per questo che la domanda “forma o sostanza?” in questo caso non vale. In Youth, la forma è sostanza.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it