16 luglio 2015 15:41

La donna si presenta da sola: “Mi chiamo Vani Hari, ma ormai tutti mi conoscono come the food babe. Per buona parte della mia vita ho mangiato tutto quello che mi andava. Amavo i dolciumi, bevevo bevande gassate, non mangiavo mai verdura, andavo nei fast food e mi abbuffavo di cibo industriale. La mia dieta tipicamente americana mi ha portato dove di solito ti porta una dieta del genere: in un letto d’ospedale. È stato lì, più di dieci anni fa, che ho deciso di fare della salute la mia priorità numero uno”.

Adesso Vani Hari ha trentacinque anni, un sorriso splendente e un blog, foodbabe.com, che solo l’anno scorso ha ricevuto 54 milioni di visite. Lì mostra il prima e il dopo: una ragazza grassoccia è diventata una bellezza normalizzata dopo aver cominciato a mangiare sano, e per questo ha dedicato la sua vita a studiare cosa ci vendono le aziende alimentari spacciandolo per cibo.

The food babe denuncia gli ingredienti dannosi degli alimenti industriali e questo è un incubo per certe aziende, ma è soprattutto il sintomo di una tendenza. Le trappole dell’alimentazione sono diventate una delle ossessioni predilette dei paesi più ricchi: se ne occupano libri, riviste, pagine web, trasmissioni radio e televisive. Quello che mangiamo dev’essere vagliato scrupolosamente: il cibo, come tutto quello che entra nel nostro corpo, è sospetto. In un’epoca priva di strutture sociali ben definite, molti cercano di difendere l’ultimo bastione, il rifugio finale: il corpo.

È vero che la cattiva alimentazione ha causato un’epidemia mondiale di obesità, che colpisce soprattutto gli Stati Uniti: uno statunitense su tre – i più poveri, i più esposti al cibo spazzatura – è obeso. Ed è vero che la paranoia alimentare comincia ad avere i suoi effetti.

Clienti in fuga

Nel cuore dell’impero del fast food, le grandi corporazioni perdono peso: McDonald’s ha cambiato amministratore delegato dopo nove trimestri di calo delle vendite, quelle della Kellogg’s diminuiscono da sette trimestri, gli utili della Kraft si sono ridotti del 62 per cento nel corso dell’ultimo anno, la Coca-Cola ha lanciato un piano per risparmiare 3,3 miliardi di euro in cinque anni.

Per adattarsi, le aziende alimentari cambiano i loro prodotti o quantomeno la loro immagine: dicono di usare ingredienti naturali, eliminano coloranti e ogm, offrono insalate per cercare di recuperare i clienti in fuga. Oggi niente vende di più di un prodotto definito sano e prodotto in condizione eque per i lavoratori. Il marketing cambia per non perdere quote di mercato.

Il rifiuto del cibo sospetto fa parte di un fenomeno più ampio: la ribellione dei clienti. In questi tempi duri per la politica, la cittadinanza si esercita attraverso il consumo: sempre più persone comprano prodotti equi e solidali, mele biologiche, verdure non fertilizzate, lane tinte con metodi naturali. Così contribuiscono a favorire certe idee del mondo: scambi più equi, migliori condizioni di lavoro, cura della terra, boicottaggio di prodotti chimici di ogni tipo.

L’insurrezione dei consumatori avanza, con più slancio quanto più ricca è la sua società, perché di solito costa parecchio: i prodotti che prediligono sono più cari degli altri.

Ma il dibattito centrale non è questo: i critici dicono che se la nostra lotta contro le ingiustizie del sistema economico si basa sulla nostra condizione di consumatori, consolidiamo il sistema che causa queste ingiustizie e che si basa proprio nel definirci tali. Altri rispondono che, dato che dobbiamo consumare, tanto vale far sentire la nostra opinione. Ad altri non interessa essere catalogati in un senso o nell’altro e pensano che l’importante sia non farsi ingannare e non ammalarsi, e prendersi cura di sé.

Nel frattempo The food babe sorride a trentadue denti: è convinta che lei (e altri come lei) stiano cambiando quello che conta.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

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