22 ottobre 2015 16:06

In principio era il verbo e il verbo era uno, fino a quando cominciò a trasformarsi in molti verbi diversi: in fin dei conti, l’America è un continente un po’ strano. Da allora, il big bang della lingua spagnola non si è mai fermato: la mescolanza con le voci locali, i contributi delle diverse ondate di migranti, le andate e i ritorni di ogni cultura hanno portato le lingue americane a differenziarsi sempre di più.

Ci sono almeno tante varietà di spagnolo quanti i paesi del continente; per semplificare, possiamo dire che i tre paesi più popolosi si sono spartiti modi e maniere. Lo spagnolo colombiano ha fama di essere il più puro, quello più vicino alla sua origine gota, il più conservatore. Lo spagnolo messicano è il più originale, pieno di parole tutte sue, più o meno indigene e incomprensibili per qualsiasi altro ispanofono. Lo spagnolo argentino è quello che ha subìto più influenze, una lingua di marinai, piena di coniugazioni arcaiche e di musica italiana.

Per un ispanofono ostinato pochi sport sono più affascinanti dell’avere a che fare con diverse varietà della sua stessa lingua, con la strana sensazione di capire e non capire, di sapere e di ignorare allo stesso tempo.

Una memoria plurale

Sono pochi gli sport più affascinanti, ma uno esiste: ascoltare la propria lingua, la varietà del luogo di origine, con la distanza che si crea quando si vive altrove. Notare e annotare, con questa falsa chiarezza creata dall’assenza, i suoi cambiamenti e le sue derive. Io pratico questo sport. Di tutte le espressioni che ultimamente caratterizzano lo spagnolo argentino, nessuna mi sembra più interessante di olvidate (dimenticatelo).

“Capo, secondo me non finiamo il lavoro in tempo”.

“Dimenticatelo, Cacho. Ce la facciamo di sicuro”.

Come dire, tranquillo, non ti preoccupare, va tutto bene: è il nuovo modo di dire onnipresente.

“E se domani perdiamo…”.

“Dimenticatelo, amico, sono dei cani”.

Che ti dicano di non preoccuparti è comune; la cosa strana è che te lo dicano, nell’Argentina di oggi, in quel modo. Olvidate (da non confondersi con lo spagnolo di Spagna olvídate) è un imperativo che ne contraddice un altro, il più categorico dell’Argentina degli ultimi decenni: l’obbligo della memoria.

Davanti a qualsiasi critica, la risposta provava a sviare l’attenzione tirando in ballo quello che aveva fatto l’autore della critica durante la dittatura

Contro chi voleva dimenticare i crimini dei dittatori, la memoria è diventata un obbligo morale; solo che poi il governo peronista ha cominciato a usare la morale come un’arma a doppio taglio; davanti a qualsiasi critica, la risposta provava a sviare l’attenzione tirando in ballo quello che aveva fatto l’autore della critica durante la dittatura – anche se, chiaramente, la presidente preferiva non parlare di quello che aveva fatto lei. Sono comparsi rancori e inquietudini, e la parola memoria ha cominciato a cambiare.

Memoria è sempre stata una parola molto plurale. La memoria è quella facoltà che ci consente di essere molti, di essere quello che siamo stati e quello che sono stati gli altri, di ricordare, di sapere. Ma in Argentina questa molteplicità (e non è l’unica) è andata persa: adesso in Argentina memoria ha un’accezione molto circoscritta. Il dizionario ancora non l’ha raccolta, ma lo farà presto. “Memoria: sostantivo, femminile; argentinismo: ricordo degli orrori della dittatura del 1976”.

È un senso unico che ha i suoi effetti pratici: a Buenos Aires esiste un’istituzione dal nome bizzarro, il museo della memoria. Un museo, per definizione, è un luogo della memoria: un luogo in cui si conservano memento di dinosauri scheletrici, pittori di successo, battaglie finite pari. Che un museo si chiami museo della memoria è la consacrazione di una parola a senso unico.

Per questo mi sembra molto significativo che gli argentini, adesso, dicano e ripetano olvidate: non ricordarlo, lascia perdere. L’obbligo della memoria, come qualsiasi obbligo, stufa. Se una cosa così intima è imposta da qualche potere, perfino i più pigri si ribellano.

Immagino che sia per questo che in un paese in cui si è abusato della memoria, milioni di persone invitano a dimenticare. È un pericolo, è un peccato, è un’altra dimostrazione del fatto che la lingua è più astuta. È anche il segno della fine di un ciclo.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it