28 ottobre 2011 09:13

Fino al 1960 una legge federale canadese proibiva alla popolazione indigena, che tutte insieme formano Prime nazioni, di riunirsi in gruppi di più di dieci persone. L’ho scoperto lunedì scorso, parlando con Michelle Audette, presidente delle Donne native del Québec e appartenente alla popolazione innu.

Un’altra donna indigena mi ha spiegato che fino alla metà degli anni cinquanta era necessario ottenere un permesso per uscire dalla riserva, e non era scontato che le autorità lo concedessero. Per andare a lavoro in miniera, suo padre era costretto a portare con sé tutta la famiglia.

Anni di lotte, proteste e disobbedienza civile hanno portato all’abolizione di tutte quelle leggi vergognose che a posteriori fanno apparire ridicola la definizione di “democrazia” di cui si fregiava il Canada. Audette mi ha spiegato che l’abrogazione delle leggi restrittive per gli indigeni ha permesso di creare i precursori dell’attuale Assemblea delle prime nazioni del Canada.

L’assemblea non è un istituzione governativa ma soltanto rappresentativa, i cui membri sono eletti dai capi delle circa 600 comunità indigene del Canada. Ghislain Picard è il capo della sezione del Québec dell’assemblea. L’ho incontrato martedì in un affollato caffè di rue McGill, a cinque minuti da Victoria square, dove il movimento Occupy Montréal si è appropriato dello spazio pubblico ormai da 12 giorni. “Gli organizzatori ci hanno contattato prima di iniziare il presidio”, mi ha spiegato Picard. “Volevano sapere di chi fosse la terra dove è stata costruita la piazza. Gli abbiamo spiegato che è dei mohawk”.

Nell’accampamento dei manifestanti, tra le tende e la cuisine du peuple, ho incontrato un ragazzo dagli occhi scuri con una kefiah nera attorno al collo, che informava i passanti sulla protesta. Quando gli ho detto che venivo dalla Palestina i suoi occhi si sono illuminati. La sua famiglia è arrivata in Canada da Betlemme trent’anni fa. Gli ho raccontato di aver passato un po’ di tempo con i membri delle prime nazioni, e a quel punto il suo entusiasmo è cresciuto ulteriormente. “Siamo andati dai mohawk – mi ha spiegato - e ci hanno detto che erano contenti che avessimo piantato le nostre tende nella loro terra”.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it