Cultura Suoni
Cowboy Carter
Beyoncé (Blair Caldwell, Parkwood Entertainment)

Questo è il secondo capitolo dell’odissea in tre atti di Beyoncé. Pieno d’intermezzi e parti parlate, a volte Cowboy Carter sembra eccessivamente impegnato nel costruire una narrazione a scapito dell’ispirazione. Ci offre 79 minuti comunque ricchi di spunti interessanti. Arrivato dopo cinque anni di studio negli archivi della musica country statunitense, l’album è inteso sia come continuazione di Renaissance del 2022 sia come momento autonomo. Beyoncé ricontestualizza la musica country come una forma d’arte che attinge da tradizioni che vanno ben oltre quello che i guardiani bianchi del genere vorrebbero farci credere. Il disco suona come un teatro di rivista: insieme alla cantante texana sotto i riflettori ci sono pionieri del country (Dolly Parton, Willie Nelson e la mai abbastanza celebrata Linda Martell), provocatori pop (Miley Cyrus, Pharrell Williams), il gigante del crossover Post Malone e artisti emergenti del country nero Tanner Adell e Shaboozey. Il sipario si apre con la potente Ameriican requiem: Beyoncé non perde tempo nell’esporre le sue credenziali nazionali e polemizzare con la parte più tradizionalista del paese. Le questioni familiari dominano la prima parte del lavoro: il divorzio dei genitori (16 carriages) e la crescita delle figlie (Protector). Nella rielaborazione creativa di Jolene di Dolly Parton, più che supplicare l’amante del marito Beyoncé mostra i denti. È nei momenti fuori copione che l’album funziona meglio. L’avvincente ballata di omicidio/vendetta Daughter sfocia improvvisamente nell’aria italiana Caro mio ben, mentre Spaghettii sovrappone un rap tagliente e violento al funk brasiliano. Cowboy Carter non lascia nulla al caso e dimostra che Beyoncé sa come si sta al centro del rodeo. È un disco storico, probabilmente inevitabile. Ma una volta che la polvere della sua audacia si è depositata, non sembra in grado di diventare un classico.
Alan Pedder, The Line of Best Fit

For your consideration
Empress Of (kaio cesar)

Negli ultimi dieci anni Lorely Rodriguez, in arte Empress Of, si è mossa con facilità tra synth pop spensierato e ballate introspettive. Anche quando è orientata su suoni più commerciali lascia venire a galla influenze particolari, come i Cocteau Twins o Imogen Heap. Il suo quarto album è sensuale, i ritmi electropop e dance sono propulsivi, ma il suo approccio come cantante e produttrice, è intricato e inatteso. For your consideration si esprime al meglio proprio attraverso la voce, mentre i testi parlano di amanti segreti e nuove avventure. Anche quando la musicista tira fuori stati d’animo vulnerabili non perde l’impeto con cui ha cominciato. Rodriguez tiene in piedi abilmente un gioco di equilibri tra la sua visione concettuale e la voce. Così ci trascina in un’orbita in cui racconta ogni piccola sfumatura del desiderio.
Eric Torres, Pitchfork

Fauré: musica per piano solo

Gli appassionati della musica per piano di Gabriel Fauré (1845-1924) hanno a disposizione molte integrali su disco di alto livello, dal classico Jean-Philippe Collard (Erato) a sorprese come Kathryn Stott (Hyperion). Oggi Lucas Debargue si segnala portandoci qualcosa di nuovo. Sappiamo da tempo che Fauré non era un decadente vaporoso e il pianista francese lo conferma con energia. Spesso più rapido dei suoi concorrenti discografici, suona sempre con grandissima chiarezza. Il suo Fauré è indiscutibilmente solare, con piani sonori perfettamente bilanciati e un’architettura saldissima. L’uso dello straordinario pianoforte Opus 102 di Stephen Paulello è particolarmente adatto alla lettura di Debargue. Ma sarebbe un grave errore limitarsi a questa prima impressione, perché c’è anche una sottigliezza costante. Questa è un’integrale che non scavalca necessariamente le altre, ma s’impone per l’originalità e una profonda onestà.
Jacques Bonnaure, Diapason

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1557 - 5 aprile 2024
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