Peter Mitchell, 82 anni, afferma oggi che avrebbe voluto essere originario di Leeds, dopo avere dedicato praticamente tutta la sua carriera fotografica all’osservazione di questa città nel nord dell’Inghilterra.

In realtà, il documentarista britannico è nato a Eccles, nella contea di Manchester, e a causa della guerra si è trasferito con la sua famiglia a Londra, nel quartiere di Hampstead. Studia per diventare disegnatore cartografico e, grazie a una borsa di studio, nel 1967 si iscrive all’Hornsey college of art, dove si ritrova nel mezzo di un periodo di proteste e rivendicazioni da parte degli studenti: comincia quindi a prendere parte ai movimenti radicali, a conoscere la cultura hippie e a viaggiare in autostop in Europa e negli Stati Uniti.

Nel 1972 va a Leeds per la prima volta, in visita a degli amici che vivono in case occupate. Decide di restare e fare le consegne con un furgone per guadagnarsi da vivere. Gira la città in lungo e in largo, portandosi dietro una piccola fotocamera Yashica 6x6 ma senza una particolare conoscenza della fotografia. “Realizzai all’improvviso che mi trovavo in un luogo strano. Tutti i posti e le cose si fondevano: erano semplicemente interessanti”, spiega Mitchell in un’intervista per la Photographers’ gallery di Londra, che gli ha dedicato la retrospettiva Nothing lasts forever, aperta fino al 15 giugno.

Centro industriale e manifatturiero, dal secondo dopoguerra Leeds è stata investita da grandi cambiamenti per rigenerare il volto della città e rinnovare i quartieri più poveri. Una delle imprese più significative nella sua storia è stata la demolizione dei Quarry hill flats, un’opera imponente di edilizia popolare concepita nel 1934 dall’architetto modernista R. A. H. Livett. Con il passare del tempo, tuttavia, l’edificio è diventato il simbolo del degrado e del declino della città. Nel 1979 l’amministrazione comunale decide quindi di demolirlo completamente. Peter Mitchell è lì, a documentare gli ultimi anni di vita di questo complesso residenziale che diventa il soggetto del suo primo libro Memento mori, autopubblicato e uscito nel 1990.

A parte Quarry hill, Mitchell si sofferma sulle case, i negozi, i lavoratori e le feste di quartiere ma, restando fedele al formato quadrato della pellicola a colori, sviluppa un approccio concettuale che lo rende affine allo statunitense William Eggleston. “Se ci fate caso la foto è sempre la stessa: cambiano di poco le persone, i luoghi, la luce”. Questo rigore formale è messo in evidenza nella serie A new refutation of the Viking 4 space mission, in cui incornicia i suoi scatti con delle griglie di mappe spaziali perché vuole mostrare come potrebbe essere Leeds vista dagli alieni. Il lavoro viene esposto all’Impressions gallery di York nel 1979 ed è il primo corpus su pellicola a colori esposto in una galleria britannica.

L’opera di Mitchell potrebbe essere sintetizzata dal titolo di un altro suo libro, Strangely familiar, pubblicato nel 2013 e curato da Martin Parr: un racconto ambivalente di un mondo in disfacimento, dove la distanza dello sguardo non compromette mai l’amore nei confronti di qualcosa che appare sia insolito che riconoscibile.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it