A Graciela Iturbide non piace che le sue fotografie siano definite “magiche”. Vuole evitare semplificazioni linguistiche che accosterebbero i suoi lavori al “realismo magico” di Gabriel García Márquez, che la fotografa conosceva bene. Iturbide ama i rituali (“Per me sono quello che salva l’umanità, sono l’unico modo per dimenticare la vita quotidiana”). Li ha fotografati dal Messico all’India e ne ha conservato le tracce nel corso dei suoi numerosi viaggi. Ma non è mai alla ricerca dell’elemento diverso, irrazionale, insolito. Al contrario, cerca di vivere, di conoscere, di condividere la vita degli altri attraverso le immagini. “Alla base del mio lavoro c’è una frase dello scrittore statunitense Henry Miller che il fotografo francese Brassaï amava e aveva ripreso in uno dei suoi libri: ‘La vita non può essere colta attraverso il realismo o il naturalismo, ma solo attraverso il sogno, il simbolo, l’affabulazione’”.

Nata nel 1942 in una numerosa famiglia cattolica e conservatrice di Città del Messico, Iturbide entrò molto presto in contatto con la fotografia, affascinata dalla scatola in cui suo padre conservava le foto dei parenti e che la bambina andava spesso a guardare. A undici anni ricevette la sua prima macchina fotografica e questa esperienza precoce confermò il suo profondo interesse per l’immagine. In seguito si iscrisse alla scuola nazionale di arti cinematografiche di Città del Messico. All’epoca voleva diventare regista ma durante i suoi studi l’incontro con un professore, Manuel Álvarez Bravo, le cambiò la vita. Lui era un fotografo e la curiosità della studente lo attirò tanto da convincerlo a sceglierla come assistente. In questo modo Graciela imparò il mestiere, prima nello studio fotografico, poi percorrendo tutto il paese con il maestro nel 1970 e 1971. Così scoprì la ricchezza delle culture popolari di cui il fotografo – che André Breton aveva celebrato – collezionava gli oggetti.

“All’inizio ho fotografato Città del Messico poi, grazie a Manuel Álvarez Bravo, sono entrata nel mondo indigeno, e mi ha talmente affascinato che ho sentito il bisogno di conoscerlo meglio”, racconta.Purtroppo in Messico è un mondo molto emarginato e non accettiamo di viverlo e di condividerlo a causa dei pregiudizi di classe. La mia attrazione è in parte legata al carattere tragico della situazione. A Juchitán la gente vive bene ma ci sono altre regioni nel paese dove, a causa di questa emarginazione, i nativi vivono in condizioni terribili. Bisogna trovare una soluzione a questi problemi, ma a un altro livello, non con la fotografia. Non cerco di cambiare il mondo facendo la fotografa. Partecipo in altri modi, mai con la mia macchina. A meno che non me lo chiedano com’è successo a Juchitán, dove ho fotografato delle manifestazioni politiche e poi ho dato le stampe agli organizzatori. Vista la difficoltà enorme in cui si trovano, gli indigeni cercano di conservare le loro feste e le loro tradizioni. È per questo motivo che mi attirano tanto. Ma voglio sottolineare che quando fotografo il mio paese non è per documentare o per farlo conoscere. È la mia interpretazione e la mia passione per questi fatti e usanze”.

Mujer zapoteca, Tonalá, Oaxaca, 1974

Questa immersione in una cultura è particolarmente evidente nella grande serie che Graciela Iturbide ha realizzato, su richiesta del pittore e incisore Francisco Toledo (l’altro grande personaggio del suo percorso artistico), a Juchitán, nell’ist­mo di Tehuantepec, nella valle di Oaxaca. Siamo tra l’Atlantico e il Pacifico, dove i venti dei due oceani hanno modellato il paesaggio e probabilmente anche i caratteri. In questa società le donne zapoteche hanno un ruolo fondamentale. Sono donne forti, con cui Graciela Iturbide ha vissuto conquistandosi la loro fiducia e che dal 1979, e per sei anni, nei suoi soggiorni accompagnava al mercato, nei riti legati al matrimonio o con i loro figli.

Khajuraho, India, 1998

Processo schizofrenico

Di questo luogo in cui erano venuti anche Henri Cartier-Bresson, Sergej Eisenstein, Tina Modotti e Frida Kahlo, Graciela Iturbide ha costruito con grande libertà un ritratto libero e poetico in bianco e nero. La fotografa è perfettamente consapevole del suo approccio: “Chi fotografa costruisce la sua realtà in funzione delle sue conoscenze e delle sue emozioni. Talvolta è complicato perché è un processo sottilmente schizofrenico. Senza la macchina fotografica vedi il mondo in un modo, quando ce l’hai lo vedi in un altro; attraverso questa piccola finestra componi, sogni la realtà, come se ti permettesse di sintetizzare quello che sei e quello che hai assorbito di un luogo. Poi fabbrichi la tua immagine, la interpreti. Al fotografo succede la stessa cosa che capita allo scrittore: l’impossibilità di cogliere la verità della vita”.

Carnaval, Tlaxcala, Messico, 1974

È stato a Oaxaca che Iturbide ha realizzato la sua fotografia più famosa. “Nuestra señora de las iguanas è diventata nel tempo una vera icona. Oggi i messicani mettono una riproduzione di questa immagine sui loro altari. È una fotografia che ho scattato per caso al mercato. Questa donna era arrivata con delle iguane sulla testa e le ho detto: ‘Aspetta, fammi scattare una foto’. Lei aveva già messo le iguane per terra e le ha rimesse in testa. Una sola sulle dodici foto che ho fatto era buona, perché era l’unica in cui le iguane alzavano la testa come se si fossero messe in posa. Questa fotografia non solo è stata interpretata da me, ma anche dalla critica, dai messicani e dagli abitanti di Juchitán, che ne hanno fatto un manifesto e l’hanno soprannominata La medusa juchiteca. Mi piace questa appropriazione del mio lavoro, mi piace che la gente interpreti quello che ho già interpretato”. Graciela Iturbide ha inventato un mondo dove uomini e animali convivono e intrattengono delle relazioni particolari, di volta in volta poetiche o tese, addirittura violente, come nel caso della serie su un massacro di capre. E nel suo lavoro gli uccelli occupano un ruolo particolare, un ruolo che ricorda la sua libertà: volano vicino a un vestito sospeso ai rami di un albero, volteggiano a centinaia intorno a un uomo o coprono gli occhi della fotografa per uno di quegli autoritratti di cui lei sola ha il segreto.

Cholas, Los Angeles, Stati Uniti, 1986

“Un fotografo senza immaginazione non è un buon fotografo”, dice Iturbide. “Quando parlo d’interpretazione, mi riferisco all’inquadratura che si dà a ciò che vediamo: l’inquadratura è il mio modo di interpretare un momento”. E particolarmente bella è la sua definizione della fotografia: “Penso che tutti i fotografi facciano della fotografia documentaristica. Ma poi, a seconda dell’interpretazione di ciascuno, nel risultato c’è più o meno poesia o immaginazione. Se insisto sullo stupore è perché ci permette di raggiungere il mondo che si trova dietro le cose o all’interno di noi”. ◆ adr

La niña del peine, Juchitán, Oaxaca, 1979
Nuestra señora de las iguanas, Juchitán, Oaxaca, 1979
Autorretrato, Desierto de Sonora, México, 1979
Da sapere
La mostra

◆ La mostra Heliotropo 37, che raccoglie più di duecento fotografie di Graciela Iturbide, è esposta alla fondazione Cartier di Parigi fino al 29 maggio.


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Questo articolo è uscito sul numero 1456 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati