“Poliziotti vestiti di nero, con elmetti ed equipaggiamento protettivo, usano i manganelli per aggredire le persone che portano la bara al corteo funebre. Le colpiscono alle gambe finché la bara scivola, cadendo quasi a terra”. Così il giornalista Nir Hasson ricorda su Haaretz il funerale di Shireen Abu Akleh, che si è svolto il 13 maggio a Gerusalemme. Il problema, secondo Hasson, “sta nell’uso ingiustificato della violenza da parte della polizia”. Le autorità hanno diffuso il video registrato da un drone in cui si vedono due ragazzi lanciare quella che sembra una bottiglia d’acqua contro gli agenti, prima della carica. Ma, commenta Hasson, “è una scusa inconsistente per una condotta simile, in un evento che avrebbe dovuto essere gestito con la massima sensibilità”.

Questo incidente è solo uno dei tanti in cui la polizia israeliana si è comportata in modo inaccettabile. Il giorno in cui Abu Akleh è morta i poliziotti sono andati a casa della sua famiglia chiedendo di togliere le bandiere palestinesi, liberare la strada e abbassare il volume della musica. Poco dopo la processione funebre, la polizia è stata ripresa mentre strappava le bandiere palestinesi dalle auto.

Come se non bastasse, ricorda ancora il quotidiano israeliano, il 14 maggio è morto un giovane palestinese, Walid al Sharif, che era stato ferito alla testa tre settimane prima, mentre lanciava pietre contro la polizia sulla Spianata delle moschee a Gerusalemme. La polizia ha dichiarato che la causa del decesso era una caduta, senza fornire prove. Anche in questo caso, nota Hasson, il problema non sta nel modo in cui i palestinesi o gli altri paesi percepiscono l’evento, o nel rischio che da lì si scateni una nuova ondata di terrore, ma nel fatto che si possa morire così. Hasson conclude: “C’è un problema nelle forze di polizia. Qualcuno potrebbe dire che dipende dai sistemi di comando e controllo, o dai metodi di addestramento e reclutamento. Ma in realtà ha radici molto più profonde. Gli agenti non considerano i palestinesi che hanno davanti come esseri umani, né sentono il bisogno di rispettare loro o il loro dolore. Questa è una verità terribile, e non solo per i palestinesi”.

Arroganza e presunzione

Per Alain Gresh, direttore del sito Orient XXI, la prima parola che viene in mente guardando le immagini del funerale di Abu Akleh è “osceno”: “A parte il giudizio politico, l’intervento della polizia colpisce le fondamenta della dignità umana, violando un principio sacro che risale all’alba dei tempi, il diritto di essere sepolti con dignità”. Ma Israele, continua Gresh, “non fa nessuno sforzo per ‘nascondere’ le sue azioni, dato che non le considera ‘oscene’. Agisce apertamente, con l’arroganza e la presunzione di superiorità che caratterizza non solo la maggioranza della classe politica, ma anche gran parte dei mezzi d’informazione, che ripete la linea dell’esercito”.

Il direttore di Orient XXI riconosce che la reazione internazionale è stata più forte del solito data la notorietà di Abu Akleh, ma è convinto che le proteste ufficiali non porteranno a niente: “Non ci sarà un’indagine internazionale perché né l’occidente né i paesi arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele sono pronti ad andare oltre le denunce verbali o ad ammettere che ogni concessione fatta a Israele non produce ‘moderazione’ da parte di Tel Aviv, ma incoraggia la colonizzazione e la repressione”. Secondo lui non sapremo mai chi ha ucciso Abu Akleh. Ma quello che sappiamo, conclude, è che la catena delle responsabilità è lunga: “Comincia a Tel Aviv, ma arriva fino a Washington, passando per Abu Dhabi e Rabat e raggiungendo Parigi e Bruxelles. L’omicidio di Shireen Abu Akleh non è l’azione di un lupo solitario; è un crimine collettivo”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1461 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati