Lo scrittore ispano-argentino Andrés Neuman è diventato padre da poco, e ne parla in Ombelicale. Avere un figlio cambia la vita. Ci fa uscire da noi stessi perché ci costringe a cambiare lo sguardo, prima rivolto al nostro ombelico, e fa emergere sentimenti che non sapevamo di avere. A metà strada tra poesia e narrativa, e scritto con una vena lirica, Neuman cerca di porre il padre – se stesso – come soggetto che osserva la realtà della gravidanza, della nascita e della successiva trasformazione, facendola propria per spiegarla. Il romanzo è composto da tre parti. Nella prima l’autore si colloca nello spazio dell’attesa, quando il nascituro assomiglia a “un ippocampo, un astronauta o un impossibile ibrido tra i due”. O forse a un elettrone oppure a un “nuotatore pioniere”. Assistiamo quindi al fascino delle ecografie, alla scelta del nome, alla rivelazione di sentimenti contrastanti: la gioia dell’attesa e la paura di rivivere il passato attraverso il bambino. Nella seconda parte risuona l’apoteosi della nascita: la sorpresa per la perfezione, la realtà che cambia, le incertezze, la mancanza di sonno, l’alterità, la luce che si crea quando la madre allatta il bambino, i dubbi prima del pianto, la deliziosa nostalgia per il futuro, la sensazione di pienezza, il tempo fermato e quello che sfugge, la chiarezza del riso, la fragilità del vivere, l’enigma con cui il bambino illumina il padre; le paure. L’ultima parte si presenta come un “monologo minimo”. Un bellissimo libro ibrido.
Ascensión Rivas,El Español

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Questo articolo è uscito sul numero 1499 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati