Coperta di sensori, distesa immobile in uno scanner a risonanza magnetica che fa un rumore infernale, Sarah Pineau, 35 anni, vede sfilare delle foto: ragno, gattini, scena di caccia, teneri neonati, volpe morta. Si sforza di modulare le proprie emozioni seguendo le indicazioni ricevute e segnala le sue reazioni attraverso un telecomando. Dall’altro lato del vetro il ricercatore Leonardo Ceravolo sorveglia i computer che registrano una miriade di dati: ritmo cardiaco, livello di sudorazione e attività cerebrale. “Vogliamo verificare l’ipotesi secondo cui essere esposti a condizioni climatiche estreme può modificare la capacità di regolare le proprie emozioni”, spiega Ceravolo, ricercatore in neuroscienze all’università di Ginevra, in Svizzera, prima di assegnare un altro compito a Pineau. Ora deve valutare il suo livello di paura di fronte a video che alternano paesaggi idilliaci, scene di film dell’orrore e personaggi insanguinati e congelati nella neve.

Siamo all’Institut du cerveau et de la moelle épinière (Icm) presso l’ospedale della Salpêtrière a Parigi. Pineau è tornata il giorno prima dal nord della Lapponia finlandese, dove ha passato un mese insieme a una ventina di altri “climanauti” del progetto scientifico Deep climate. Sotto la guida dello Human adaptation institute, fondato dall’esploratore e ricercatore franco-svizzero Christian Clot, una quarantina di scienziati di 15 istituti cercano di capire quanto gli esseri umani siano in grado di adattarsi alle nuove condizioni climatiche, in termini fisiologici e cognitivi, a livello individuale e collettivo. L’idea è esporre dieci donne e dieci uomini a tre tipi di climi estremi simili a quelli in cui potremmo vivere in un futuro prossimo. I volontari hanno tra i 25 e i 52 anni, provengono da diversi ambienti sociali e professionali, sono in buona salute, vivono in Europa in un clima temperato e non sono abituati a condizioni climatiche difficili.

Un volontario dello studio sottoposto a risonanza magnetica. Parigi, 6 aprile 2023 (Foto di Cha Gonzalez)

A dicembre del 2022 queste persone hanno passato quaranta giorni nel clima caldo umido e piovoso della foresta della Guyana. Poi in primavera trenta giorni nel freddo molto variabile della Lapponia: tra dieci e trenta gradi sottozero, con punte di cinquanta. “Un clima che corrisponde alle variazioni brusche di temperature e alle tempeste improvvise che potrebbero diventare comuni nel nord della Francia a causa del cambiamento climatico”, osserva Clot. Per la loro ultima missione rimarranno quaranta giorni nella fornace arida del deserto saudita. Tra una fase e l’altra è previsto un solo mese di riposo e di controlli scientifici. “È il primo esperimento condotto su questa scala e in condizioni ecologiche reali”, afferma il capo del progetto, sottolineando che esistono pochi studi sull’adattamento del corpo e del comportamento umano ai cambiamenti climatici. I precedenti esperimenti sono stati tutti realizzati in laboratorio o su campioni specifici (militari, atleti, eccetera).

Immagini dei test sui volontari a Parigi, 6 aprile 2023. Nella seconda foto: “Il test sta per cominciare. Alcuni video potrebbero spaventarvi. Per favore non chiudete gli occhi e non muovete la testa”. (Foto di Cha Gonzalez)

Il freddo unisce

Appena scesi dall’aereo, per evitare che il corpo e la mente abbiano il tempo di riabituarsi al clima francese, Pineau e i suoi compagni sono sottoposti a una serie di test e questionari, che hanno dovuto completare anche prima e durante la spedizione. Tutto o quasi è preso in conto: fisiologia (sonno, temperatura, funzioni cardiovascolari, prestazioni fisiche, metabolismo), analisi biologiche (sangue, flora intestinale), processi emotivi e sensoriali (percezione del tempo, dello spazio, percezioni visive e olfattive), plasticità cerebrale, regolazione dell’espressione genica, processi cognitivi (decisioni, attenzione, memoria, motivazione, fatica cognitiva). Un’altra parte dello studio riguarda la capacità di adattamento collettiva: come il gruppo reagisce, interagisce e si coordina – o meno – quando è esposto a un clima estremo e instabile. Chi dirige e come? La solidarietà e l’empatia aumentano o diminuiscono? Infine gli scienziati osservano il rapporto dei volontari con la natura, per capire se li aiuta o no ad adattarsi.

Una volontaria sottoposta a un test, aprile 2023 (Foto di Cha Gonzalez)

Dopo un’ora Pineau esce dallo scanner, sorridente nonostante il naso e le guance ancora segnate dal freddo lappone. “Non mi piace il freddo”, racconta. “Prima di partire ero molto preoccupata, ma ho voluto affrontare la paura, andare fino in fondo, anche se con i piedi ghiacciati ho dormito malissimo. Chi più chi meno, abbiamo faticato tutti. Era una lotta permanente, molto più difficile che in Guyana. Ho constatato che più le condizioni sono complicate, più il gruppo collabora. Forse sono un’inguaribile ottimista, ma mi sembra che l’istinto di sopravvivenza spinga a unire le forze”.

Anche Marion Rouquier, un’altra volontaria che incontriamo dopo i test sulla memoria spaziale, è ottimista. “In Lapponia c’era più collaborazione che in Guyana. Abbiamo confrontato le nostre strategie per fare i conti con il freddo e i frequenti cambiamenti meteorologici. I più in forma hanno portato gli zaini di quelli che facevano più fatica”, racconta questa psicologa di trent’anni, convinta che il “freddo avvicina, in senso sia letterale sia figurato”.

Rouquier però è preoccupata dal caldo estremo che la attende in Arabia Saudita: “Contro il freddo ci sono dei rimedi, per esempio indossare più strati di vestiti, ma contro il caldo sarà più difficile”. E si chiede come gestirà una possibile mancanza d’acqua e in che modo reagirà il gruppo. “Saremo più lenti, meno attivi, avremo voglia di allontanarci dagli altri per avere il nostro spazio e poter respirare?”.

Disorientamento e accettazione

I primi risultati del programma Deep climate arriveranno solo alla fine del 2023, quando la quantità enorme di informazioni raccolte sarà stata analizzata. Ma sono già emerse alcune indicazioni. “Ognuno si adatta in modo diverso, e non è una questione di genere o di età”, osserva Clot, “ma ci sono degli elementi ricorrenti”. Di fronte a un cambiamento tutti attraversano una fase di disorientamento, che “crea molta fatica mentale”. Dopo un “momento di accettazione, che passa sempre da un’emozione”, comincia la fase di “ricostruzione”, in cui si apprendono nuove conoscenze e si adottano comportamenti diversi. L’ultima fase consiste nell’essere di nuovo capace di proiettarsi nel futuro. “Cerchiamo di capire come si possono spingere le persone a trovare in se stesse le risorse necessarie per ridurre al massimo la fase di disorientamento”, continua il ricercatore, convinto che “se un gruppo non coopera, adattarsi è impossibile”.

Clot ha proposto ad alcuni deputati francesi di accompagnarlo nel deserto “per rendersi conto di persona che c’è un problema”

È una sfida impegnativa. Riusciremo individualmente e collettivamente ad adattarci al caos climatico che ci aspetta? Tanto più che nei paesi occidentali “stiamo diventando meno resistenti e più vulnerabili, fisicamente e psicologicamente, rispetto ai nostri nonni”, osserva il medico Stéphane Besnard, tra i direttori scientifici di Deep climate.

Resta da vedere se questo studio, relativamente breve e condotto su un campione di venti persone, tutte giovani e in buona salute, potrà aiutare a prevedere come reagirà sul lungo periodo il resto della popolazione, molto più numerosa e composta anche da bambini, anziani e malati. “Dovevamo pur cominciare da qualche parte”, risponde la neuroscienziata Margaux Romand-Monnier, responsabile della ricerca presso lo Human adaptation institute. “Ma possiamo dare per scontato che se per i volontari è stata dura, lo sarà ancora di più per le persone più fragili”.

Secondo Barbara Le Roy, che termina la sua tesi di dottorato in neuroscienze conducendo degli esperimenti per Deep climate, adattarsi ai climi estremi sarà molto difficile: “La preparazione sarà molto importante, bisognerà imparare a essere più flessibili, a gestire lo stress, ad accettare la situazione”.

Sarah Pineau, aprile 2023 (Foto di Cha Gonzalez)

Ma di fronte all’avversità climatica invece di cooperare non si rischia di isolarsi, diventare più egoisti o addirittura uccidersi l’un l’altro? Impossibile dirlo per ora. Ma Clot è convinto che la nostra salvezza individuale e collettiva passerà per un cambiamento del sistema educativo, in particolare attraverso la sensibilizzazione dei bambini alla natura. Inoltre dovremo modificare i nostri comportamenti per limitare la portata della crisi climatica, per esempio mangiando meno carne, cosa che presuppone altri adattamenti non facili. E “nulla si potrà fare senza la fiducia, che si crea solo attraverso l’esempio”, insiste Clot.

A proposito di politica, il ricercatore ha proposto ad alcuni deputati francesi di accompagnarlo nel deserto saudita “per rendersi conto di persona che c’è un problema”. Alcuni avrebbero già dato la loro disponibilità. A settembre Clot vuole invitare parlamentari, ministri, manager e perfino il presidente della repubblica a “restare per quaranta minuti a 46 gradi in un camion appositamente attrezzato”, parcheggiato di fronte all’assemblea nazionale francese o al senato, e poi chiedere loro se pensano di poter sopportare una temperatura simile per una settimana di seguito. “Per ragioni di sicurezza non abbiamo avuto l’autorizzazione a superare i 46 gradi”, dice Clot. Una cosa che fa riflettere, dal momento che a partire dal 2050 in Francia si potrebbero registrare temperature di 50 gradi o più. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1512 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati