Mentre il resto del mondo fa i conti con l’aumento del costo della vita, la Cina ha il problema opposto: il crollo dei prezzi. A luglio la seconda economia del mondo è scivolata ufficialmente nella deflazione per la prima volta in due anni, con un calo dei prezzi al consumo dello 0,3 per cento. Erano già rimasti stabili per gran parte del 2023, mentre nel resto del mondo tutto era aumentato, dall’energia ai prodotti alimentari. Se questa situazione può apparire vantaggiosa per il consumatore medio, per gli economisti è un brutto segnale: quando i prezzi calano per un periodo prolungato, le persone limitano le spese e le economie riducono la produzione. Il risultato sono licenziamenti e salari più bassi. La deflazione è l’ultimo di una serie di segnali d’allarme che sollevano dei dubbi sulla la ripresa dell’economia cinese dopo la pandemia. Non è la prima volta che la Cina è in deflazione, ma ora il calo dei prezzi preoccupa di più. Tra l’incertezza nell’economia globale e le tensioni geopolitiche, i paesi stranieri comprano meno dalle fabbriche cinesi. Le previsioni sono cupe, mentre l’economia avrebbe un gran bisogno di uno scatto per far fronte a sfide più urgenti, dal calo record dei tassi di natalità all’alto indebitamento delle amministrazioni locali, da un mercato immobiliare esausto ai livelli elevati di disoccupazione giovanile.

Le prospettive economiche cinesi sono offuscate da una serie di problemi. Il più urgente riguarda il settore immobiliare, che rappresenta quasi un terzo dell’economia nazionale. In tutta la Cina storicamente i governi locali hanno fatto affidamento sulla vendita di terreni per ricavare denaro e questo ha incentivato la costruzione di immobili anche quando l’offerta superava la domanda. Così c’è stata una proliferazione di complessi residenziali vuoti soprannominati “città fantasma” e di infrastrutture inutili come i cosiddetti ponti verso il nulla. In base ad alcune stime, nel 2019 gli appartamenti vuoti erano addirittura un quinto del totale. Le fragili basi del mercato sono emerse nel 2021, quando i tentativi di Pechino di dare una stretta all’eccesso di prestiti hanno causato l’insolvenza del gigante delle costruzioni Evergrande per più di 300 miliardi di dollari (274 miliardi di euro). Da allora la crisi ha coinvolto diverse altre importanti aziende, tra cui la Country garden, che nel 2022 è stata la prima per vendite nel settore immobiliare a livello nazionale e che ora si trova sull’orlo di un fallimento da duecento miliardi di dollari.

Secondo uno studio dell’istituto di ricerca Gavekal dragonomics, 86 aziende immobiliari private nel 2022 avevano un debito complessivo di 725 miliardi di yuan (novanta miliardi di euro), mentre 53 aziende statali sono nei guai per 174 miliardi di yuan. È improbabile che Pechino permetta un crollo totale del mercato, secondo alcuni analisti però i politici potrebbero considerare questa fase un correttivo doloroso ma necessario per ridurre la dipendenza della Cina dal settore immobiliare. “È una strategia rischiosa e nei mercati le cose possono deragliare molto rapidamente”, dice Christopher Beddor, vicedirettore della ricerca sulla Cina del Gavekal dragonomics.

Problemi strutturali

Gli economisti concordano sul fatto che il paese dovrebbe spostarsi verso un modello economico più legato alla spesa dei consumatori che agli investimenti statali, ma prima deve affrontare dei problemi strutturali di non rapida soluzione. L’epoca del boom che in Giappone precedette il decennio di deflazione e stagnazione cominciato nei primi anni novanta era stata caratterizzata da stretti legami tra stato, banche e conglomerate, con politiche commerciali che sostenevano più l’industria che i consumi individuali. Oggi la Cina si trova in una situazione simile: secondo George Magnus, ricercatore associato del China centre all’università di Oxford, gli interessi all’interno del Partito comunista cinese e delle aziende statali ostacolano riforme rilevanti. “La Cina dovrebbe abbandonare la sua ossessione per le politiche di stato guidate dal partito, ridistribuire i guadagni e la ricchezza alle famiglie e al settore privato, attuare riforme fiscali e di welfare e permettere che i prezzi del capitale, della terra e del lavoro siano determinati dal mercato”, dice Magnus. “Ma non mi faccio illusioni”. Il problema è anche psicologico: finché i consumatori non recupereranno fiducia, è probabile che rimandino acquisti e investimenti, tenendosi stretti i risparmi.

Dopo lo stallo dovuto alla pandemia, il pil cinese ha recuperato ma è lontano dalla crescita a due cifre dei primi anni duemila. Pechino ha inoltre spaventato il settore privato con una serie di interventi in diversi campi, da quello tecnologico a quello dell’istruzione privata, che hanno reso più difficile fare affari per le aziende straniere. All’inizio di agosto il governo ha annunciato che smetterà di divulgare i dati sulla disoccupazione giovanile dopo che il tasso di persone senza lavoro tra i 16 e i 24 anni ha toccato il 20 per cento. “Serve qualcosa di nuovo che stimoli le entrate delle famiglie e i consumi, e sposti le risorse dal settore immobiliare e dagli investimenti di stato ai consumi”, conclude Magnus. “Non c’è molta speranza che il governo sia disposto o ne sia capace”.

Rispetto al Giappone degli anni novanta, la Cina ha qualche vantaggio. La seconda economia mondiale è molto meno ricca di quanto lo era il Giappone all’epoca della crisi e, da paese a medio reddito, ha ancora molto spazio per crescere. Inoltre, i tassi d’interesse sono molto più alti in Cina rispetto a quelli giapponesi all’epoca della crisi, dice Alicia Garcia-Herrero, capoeconomista per l’Asia Pacifico alla banca d’investimenti Natixis, e questo significa che c’è ancora margine per modificare la politica monetaria del paese. Il 21 agosto la banca centrale ha tagliato i tassi d’interesse sui prestiti a un anno, un riferimento importante per il credito alle imprese, dal 3,55 per cento al 3,45 per cento.

Secondo Beddor, Pechino potrebbe mettere in campo altri aiuti all’economia, ma è improbabile che scelga per un esteso programma di stimolo su modello statunitense, perché preferisce dare sostegno ai produttori invece che ai consumatori. “La resistenza cinese a usare gli stimoli è nota e, soprattutto, non sono usati per alimentare direttamente i consumi”, dice Beddor, secondo cui i prezzi al consumo potrebbero risollevarsi entro la fine dell’anno, se la fiducia dei consumatori migliorerà. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1526 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati