La produzione alimentare globale e l’emergenza climatica sono strettamente legate. Le siccità, le inondazioni e altri eventi meteorologici estremi minacciano le coltivazioni in tutto il mondo, mentre le emissioni di gas serra dovute all’allevamento e all’agricoltura hanno un peso considerevole sul riscaldamento globale. Per rispettare gli obiettivi climatici e salvare un sistema alimentare sempre più vulnerabile è indispensabile cambiare le abitudini nei paesi ricchi e ridurre il numero di capi di bestiame.

Alla fine di novembre, in occasione della Cop28 di Dubai, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) sottolineerà che bisogna rivedere i sistemi di consumo e produzione per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi rispetto all’epoca preindustriale. Nell’agricoltura gli interessi economici si sovrappongono alle tradizioni culturali, all’identità nazionale e al legame emotivo con la terra, e in questo settore la transizione energetica fa più fatica ad affermarsi che nei trasporti e nell’edilizia. Questa tendenza dev’essere invertita.

Il ministro danese per il clima ha da poco chiesto che gli agricoltori dell’Unione europea paghino per le loro emissioni di gas serra attraverso un meccanismo di scambio. La Nuova Zelanda fisserà un prezzo per le emissioni dal 2025. Sono passi nella giusta direzione, ma devono essere abbinati a sussidi e incentivi che spingano gli agricoltori a diversificare le attività. Cambiare il modo in cui mangiamo è una sfida culturale difficile con implicazioni economiche enormi. Non possiamo riuscirci procedendo per diktat o manovre segrete né limitando gli investimenti. Allo stesso tempo, però, è indispensabile farlo per dare un futuro all’agricoltura sostenibile. I governi devono seguire le raccomandazioni della Cop28. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1538 di Internazionale, a pagina 21. Compra questo numero | Abbonati