Una famiglia siriana, una donna afgana, una giovane guardia di frontiera, una psicologa polacca che diventa attivista. Ritroviamo tutti questi personaggi dentro l’inospitale foresta al confine tra Bielorussia e Polonia che dà il titolo a questo superbo dramma di Agnieszka Holland. Negli ultimi dieci anni ci sono stati tanti film che hanno affrontato la crisi dei rifugiati in Europa. E Green border è senz’altro uno dei migliori, anche perché lungo quel confine si è visto qualcosa di ancora più disumano del solito. Aleksandr Lukašenko, con la promessa di un facile accesso in Europa, ha attirato i rifugiati al confine bielorusso. Una mossa calcolata per provocare l’Unione europea, che trasforma il viaggio di queste persone in un incubo quando, nel migliore dei casi, si vedono brutalmente respinte dalle guardie di frontiera polacche, condizionate a non considerarle esseri umani ma “proiettili”. I profughi diventano così pedine di uno stallo geopolitico e poco riescono a fare gli attivisti che devono districarsi in un quadro giuridico ristrettissimo. Green border è uno “spettacolo” brutale, estenuante, il cui impatto è accentuato da una messa in scena magistrale. L’inquadratura di una famiglia siriana allo stremo di fronte a un muro su cui è impressa una bandiera europea suona come un atto d’accusa schiacciante contro la crescente inazione dell’Unione europea.
Wendy Ide, Screen Daily

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Questo articolo è uscito sul numero 1549 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati