AJalgaon, una città dell’India occidentale, il corteo parte alle sette del mattino, quando ancora non fa troppo caldo. È il 2 ottobre 2023, giorno di festa nazionale: 154 anni fa nasceva il mahatma Gandhi, il padre della nazione. I bambini in uniforme scolastica impugnano cartelli che riportano alcune sue frasi: “La nonviolenza è una condizione di assoluta innocenza”, “Per trovare te stesso mettiti al servizio degli altri”. Gli adulti portano copricapi bianchi come quello che ogni tanto indossava il loro idolo e c’è persino chi si è vestito come Gandhi dalla testa ai piedi, con gli occhialetti tondi e una semplice veste di cotone. Subito dietro la testa del corteo, che si snoda per le strade polverose, avanza un uomo in sandali, con i capelli ingrigiti e le tempie imperlate di sudore. A Tushar Gandhi l’andatura lenta sembra non dare alcun fastidio: “La mia strategia è sempre la stessa: bisogna andare piano, altrimenti la gente non fa in tempo ad accorgersi di noi”. Tushar è un pronipote del mahatma Gandhi. Non l’ha mai conosciuto di persona: quand’è nato, nel 1960, il bisnonno era già morto da dodici anni.

Eppure Tushar Gandhi si sente chiamato a custodire – o meglio a salvare – l’eredità di quell’uomo che chiama semplicemente bapu, padre. Per Tushar, manifestare per il bisnonno è quasi un’attività a tempo pieno. Una volta ha perfino percorso a piedi 387 chilometri, proprio quelli della famosa “marcia del sale”, la protesta guidata da Gandhi contro la pretesa dei coloni britannici di avere il monopolio del commercio del sale. La marcia è una delle iniziative con cui Gandhi mobilitò le masse fino a ottenere l’indipendenza del paese nell’agosto del 1947. Ma Tushar Gandhi teme che, insieme a molte altre cose, anche il ricordo di quegli eventi possa andare perduto.

La manifestazione di oggi segue un percorso molto più breve. Risalita la Mahatma Gandhi road, supera un campo da cricket ricoperto di erbacce e approda in un parco pubblico, il Mahatma Gandhi garden: un chilometro e mezzo al massimo. Tra poco Tushar Gandhi salirà sul palco e terrà un discorso per ricordare le battaglie del bisnonno. “Il giorno in cui smetteremo di portare avanti la sua causa sarà il giorno in cui Bapu morirà definitivamente”, osserva dirigendosi verso l’ingresso del parco.

Per il bene della nazione

A qualche centinaio di chilometri di distanza, in un quartiere verdeggiante della metropoli di Pune, incontriamo lo sviluppatore immobiliare Ajinkya Godse, 55 anni, quasi dieci in meno di Tushar Gandhi. Per Godse il 2 ottobre tutto è meno che un giorno di festa: ha preteso che i suoi dipendenti andassero a lavorare lo stesso. Mentre nel resto del paese si commemora il mahatma Gandhi, nella sede della sua azienda Ajinkya Godse ci conduce in una stanza talmente piena di vetrine, foto in bianco e nero e documenti incorniciati da sembrare un museo privato. Sopra una campana di vetro c’è un fiore fresco d’ibisco rosso e sotto un’urna d’argento che, come spiega Godse, contiene le ceneri del suo prozio, Nathuram Godse. Proprio come Tushar Gandhi, che non ha mai conosciuto il bisnonno, neanche Ajinkya Godse ha mai conosciuto il prozio, eppure vuole custodirne l’eredità. Lo ammira per il gesto compiuto il 30 gennaio del 1948: il giorno in cui uccise il mahatma Gandhi. “Non per soddisfare il suo ego e non aveva nulla di personale contro Gandhi”, racconta Ajinkya Godse, soppesando con cura le parole. “Agì per il bene della nazione”.

Quest’interpretazione della storia può risultare assurda: il mahatma Gandhi, l’uomo che riuscì a piegare i coloni britannici, l’icona mondiale, il simbolo della resistenza nonviolenta, dell’abnegazione e della convivenza pacifica tra le religioni, proprio lui sarebbe un traditore della patria? E il suo assassino un eroe nazionale? Eppure è una lettura che convince un numero crescente di indiani.

La stanza che ospita l’urna con le ceneri di Nathuram Godse è diventata meta di pellegrinaggio. Qui è esposta anche la camicia che Godse indossava il 30 gennaio 1948, con macchie ancora visibili. “Guardi il sangue”, ci dice il pronipote. “È quello di Gandhi”. Poi ci sono i libri che l’assassino leggeva in carcere dopo l’omicidio, tra cui la Bhagavad gita, un testo sacro induista: pare che Nathuram Godse l’avesse con sé quando, condannato a morte, salì sul patibolo.

Ajinkya Godse e la moglie hanno allestito questa stanza commemorativa dodici anni fa. “Ci manca solo l’arma che usò”, racconta la moglie. Sulla strada, però, i Godse non hanno messo nessun cartello. “Chi vuole rendere omaggio alle ceneri del mio prozio”, spiega Ajinkya Godse, “riesce comunque a trovarci”. Sul libro degli ospiti all’ingresso un visitatore ha scritto: “Sono venuto apposta da Hyderabad. Che onore poter vedere i resti mortali dell’autentico patriota Nathuram Godse”. Gli altri commenti esprimono concetti simili. Molte persone, anche alcuni funzionari statali, hanno lasciato tra le pagine del libro il proprio biglietto da visita.

Gandhi il giorno prima di essere ucciso, New Delhi, 1948 (Fondation Henri Cartier-Bresson/Magnum/Contrasto)

Sul social network X, l’ex Twitter, in questa giornata di festa nazionale dedicata alla nascita di Gandhi imperversa l’hash­tag #NathuramGodseAmarRahe, lunga vita a Nathuram Godse. I video che osannano l’assassino e offendono la vittima hanno migliaia di visualizzazioni, fatte soprattutto da chi, oltre a Nathuram Godse, segue anche un altro guru: il primo ministro indiano Narendra Modi. “Non ho mai incontrato nessuno che consideri un errore l’omicidio di Gandhi compiuto dal mio prozio”, racconta Ajinkya Godse. Lui e la moglie credono che lo stesso Nathuram Godse abbia chiarito il motivo del suo gesto in una specie di manifesto che lesse durante il processo. Per cinque ore Godse si descrisse come il salvatore degli indù, spiegando che uccidere Gandhi era l’unico modo per evitare la distruzione del suo popolo. L’originale, scritto a mano da Godse, è esposto qui, in una delle vetrine, e il pronipote e la moglie sembrano considerarlo una sorta di vangelo, di cui conoscono a memoria vari passi. All’unisono, recitano in inglese: “Un giorno verranno degli storici onesti che valutando il mio gesto ne riconosceranno il vero valore”. Secondo loro, quel giorno si sta finalmente avvicinando.

Fiori e ghirlande

Il 9 gennaio 1915 Mohandas Karamchand Gandhi – che presto tutti avrebbero chiamato solo mahatma, grande anima – percorse la passerella della nave postale britannica SS Arabia, sbarcò sulla sua terra come uno straniero. Gandhi, 45 anni, aveva trascorso la maggior parte della sua vita da adulto in Sudafrica, un’altra colonia britannica. La sua fama di fermo oppositore del dominio coloniale aveva solcato l’oceano precedendolo e sulla banchina una folla lo aspettava con fiori e ghirlande. La speranza era grande: i suoi seguaci contavano sul fatto che sarebbe riuscito a riunire dietro di sé gli indiani per strappare ai britannici riforme politiche ed economiche.

Da giovane Gandhi aveva studiato giurisprudenza a Londra e gli piaceva indossare completi eleganti. Ma dopo il rientro in India, viaggiando senza sosta nel paese per farsi un’idea della situazione, passo dopo passo si trasformò in quella figura ascetica che tutti conosciamo, l’avanguardia dell’indipendenza indiana.

“Gandhi aveva sviluppato il suo metodo di resistenza in Sudafrica. Era il cosiddetto satyagraha, termine che indica l’insistenza sulla propria verità e la volontà di farla valere senza l’uso della violenza, anche a costo di essere picchiati, arrestati o addirittura uccisi: secondo Gandhi, infatti, satya,la verità, non fa altro che rafforzarsi a ogni attacco di un avversario, che dal canto suo risulta indebolito dalla superiorità morale di chi ha di fronte. Quindi se la tassa sul sale l’avesse reso accessibile solo a pochissimi indiani arricchendo i britannici, e se decine di migliaia di persone fossero finite in carcere per aver pacificamente contestato quella tassa, alla fine rendendosi conto dell’ingiustizia subita sarebbero scese in piazza milioni di persone, un intero popolo in rivolta. E, nel 1930, andò proprio così.

Gandhi proclamò scioperi e arringò enormi folle adoranti che lo consideravano una guida spirituale. Quando prese il treno viaggiò rigorosamente nell’ultima classe, strapiena e sporchissima.

Il treno che trasportava le ceneri di Gandhi verso il fiume Gange, 1948 (Fondation Henri Cartier-Bresson/Magnum/Contrasto)

Era un’epoca caotica. Dopo la grande guerra del 1915-1918 l’ordine mondiale era in una fase di riassestamento che a breve sarebbe esplosa nuovamente nel sangue. Le ideologie si fronteggiavano: comunismo o fascismo? Il potere spettava al popolo o bisognava imporgli la volontà di qualcuno? Le persone nascevano tutte uguali oppure esistevano le razze, alcune destinate a dominare le altre?

In ogni angolo dell’impero britannico scoppiavano conflitti e gli oppressi volevano costituire stati nazione indipendenti, anche se spesso non era chiaro chi dovesse farne parte e chi no. In India, a progettare la rivoluzione erano in due: da un lato il mahatma Gandhi, magrissimo paladino della giustizia, sostenitore della resistenza pacifica e della convivenza tra indù e musulmani, quasi un terzo degli abitanti del subcontinente. Dall’altro c’era Vinayak Damodar Savarkar, estremista impetuoso che puntava ad abbattere il dominio coloniale con un’insurrezione violenta guidata dai bramini, l’élite della società indù, la casta superiore che Savarkar considerava la naturale classe dirigente della futura India.

Come Gandhi, anche Savarkar aveva studiato giurisprudenza a Londra ed era un personaggio carismatico. E proprio come Gandhi era induista. Negli anni venti del novecento entrambi scontarono una pena in un carcere britannico: Gandhi per un’azione di boicottaggio in cui era riuscito a unire indù e musulmani, Savarkar per aver progettato gli omicidi di alcuni funzionari coloniali britannici. Ma mentre Gandhi, condannato a sei anni, tornò libero dopo aver scontato un terzo della pena, Savarkar rischiò di morire in prigione.

Nella sua cella di nove metri quadrati nello sperduto arcipelago tropicale delle Andamane, portava al collo una tavoletta su cui era scritta la durata della pena da scontare: cinquant’anni, due ergastoli. Attraverso le sbarre della cella vedeva la stanza del boia, con le corde che penzolavano da una trave. Savarkar chiese la grazia, scrivendo una supplica dopo l’altra e giurando fedeltà ai coloni britannici. Ma non ottenne alcun risultato. Poi però scrisse un libro: Hindutva, così, Savarkar si reinventò. Il suo odio non era più rivolto contro gli inglesi, ma contro gli indiani musulmani che, al contrario degli indù, secondo lui non avevano alcun diritto di considerare l’India la loro patria. Savarkar faceva queste considerazioni a mille anni di distanza dall’epoca in cui i conquistatori musulmani avevano portato l’islam nell’India attuale. Eppure era convinto che gli indù fossero la civiltà primigenia. Era un’ideologia da sangue e suolo. Da patriota antimperialista Savarkar si era trasformato in ideologo nazionalista e razzista. È impossibile stabilire se ci sia un nesso, fatto sta che, 36 anni prima di aver finito di scontare la sua pena, Savarkar ottenne la detenzione domiciliare, che poi sarebbe stata revocata. Del resto sembrava aver davvero cambiato idea: continuò a cooperare con i britannici anche negli anni trenta e quaranta, facendo l’agitatore a danno dei suoi arcinemici, i musulmani, e di chi li sosteneva, primo tra tutti il mahatma.

Gandhi aveva molti seguaci, ma Savarkar ne aveva altrettanti, soprattutto tra i giovani come Nathuram Godse.

Nathuram Godse (a sinistra, seduto in prima fila) al processo per l’omicidio di Gandhi, New Delhi, maggio 1948  (Bettmann/Getty)

La guida sbagliata

Alla periferia di New Delhi, nel suo piccolo appartamento al pianterreno, Dhirendra Jha, giornalista, saggista e fumatore incallito, ci spiega che “Godse era una persona piuttosto disorientata, ma decisa a dar prova della sua virilità”. Jha è circondato da pile di libri sul sistema delle caste, sui bramini, sui guru e sugli squadroni di picchiatori. C’è anche Gandhi’s assassin (L’assassino di Gandhi), che ha scritto dopo anni di ricerche d’archivio e dopo aver ascoltato i testimoni oculari. È una biografia di Nathuram Godse e anche uno studio psicologico della destra nazionalista indiana. Secondo Jha, il desiderio di Godse di presentarsi come l’uomo forte è da ricondurre anche alle esperienze vissute durante l’infanzia.

Prima di lui, la madre aveva avuto tre figli maschi, tutti morti da piccoli. Al quarto tentativo, i genitori, pii bramini, decisero di ingannare il fato mettendo al figlio abiti femminili e facendogli il buco per l’anello al naso. Gli dei avrebbero dovuto credere che Nathuram fosse una femmina. “Non si poteva certo prevedere che sarebbe diventato un suprematista indù e per giunta un assassino, anzi: all’inizio era indeciso tra Gandhi e Savarkar”, racconta Jha. “Cercava disperatamente una guida”. Inizialmente scelse Gandhi e il movimento per l’indipendenza con le proteste, i boicottaggi e gli arresti di massa. Pare che alle manifestazioni Nathuram Godse indossasse addirittura un copricapo bianco come Gandhi. Ma poi, nel 1929, la sua famiglia si trasferì in una cittadina costiera vicino a Bombay e, dopo neanche tre giorni, Godse andò a trovare l’ideologo razzista Vinayak Damodar Savarkar, che per caso abitava nella stessa via. Un giovane disorientato incontrava un uomo pronto a fargli da guida. “Allora furono gettati i semi del nostro presente”, chiosa Jha.

L’India di oggi si direbbe una democrazia secolare consolidata, orgogliosa della sua pluralità e perfettamente in grado di gestirla, in cui si mescolano lingue, culture, simboli architettonici e rituali: da un lato il Taj Mahal, fatto costruire da un gran moghul musulmano, dall’altro templi dedicati a divinità indù come Shiva, Kali o Ganesha; da un lato Ahmedabad, città che prende il nome da un sultano musulmano, e dall’altro Jaipur, che invece porta quello di un maharaja induista; da un lato la star assoluta del cinema indiano, un musulmano, e dall’altro il più grande campione di cricket, un indù. Ma ora tutto questo è a rischio, e non solo agli occhi di chi manifesta con Tushar, il pronipote di Gandhi. Tutt’a un tratto, infatti, si affermano fanatici che distinguono tra indiani veri e falsi, a seconda di come si chiamano e della divinità che pregano. Le città cambiano nome, alcuni politici definiscono terroristi tutti i musulmani. I matrimoni interreligiosi sono considerati tradimenti e gli intellettuali difendono l’idea di una nazione indù, riproponendo il pensiero di Savarkar in libri che finiscono in cima alle classifiche.

Tra gli scout e il Ku klux klan

Dhirendra Jha sta lavorando al suo prossimo libro, dedicato all’associazione di estrema destra più grande del mondo, la Rss (Rashtriya swayamsevak sangh, “Organizzazione nazionale volontari”). Fondata a metà degli anni venti del novecento da un medico fortemente influenzato da Savarkar, l’organizzazione non ha un registro ufficiale degli iscritti, ma pare che siano milioni, e in costante aumento. Anche se di norma gli iscritti evitano i giornalisti e le persone esterne all’organizzazione, di cui diffidano, Jha è riuscito a intervistarne molti.

La Rss è un’organizzazione paramilitare, una via di mezzo tra i boyscout e il Ku klux klan. Sono decine di migliaia le piazze in tutta l’India in cui scolari delle elementari in pantaloni marroni e camicie bianche marciano sventolando bandiere dell’organizzazione. Secondo Dhirendra Jha “nei corsi d’indottrinamento settimanali i volontari imparano a considerarsi perseguitati, vittime in quanto indù dell’oppressione secolare” dei musulmani e dei loro presunti alleati, gli indù tolleranti come Gandhi. Sono questi, s’insegna nei corsi della Rss, che hanno permesso ai musulmani di abbattere le vacche, animali sacri per l’induismo, e che gli hanno concesso fin troppi diritti. Una funzionaria che ha lavorato a lungo per i servizi segreti interni ci ha detto, in via confidenziale, che nelle biblioteche della Rss di solito ci sono anche copie del Mein Kampf di Adolf Hitler.

La polarizzazione religiosa in città non fa che aumentare e molti hanno paura

Nathuram Godse, futuro assassino di Gandhi, s’iscrisse alla Rss poco dopo la sua fondazione. Nel 1939 il presidente dell’organizzazione, riferendosi alla persecuzione degli ebrei nella Germania nazista, scrisse che “lì l’orgoglio razziale si manifesta nella sua forma più elevata”. Alla fine degli anni cinquanta un altro ragazzo, all’epoca di appena otto anni, s’iscrisse all’organizzazione, che evidentemente apprezzava parecchio: ancor prima di raggiungere la maturità, infatti, ne risalì la scala gerarchica fino a diventare una specie di kapo, tenuto a osservare il celibato e a sacrificare tutto alla causa. E così il giovane, che per volere dei genitori si era fidanzato a soli tredici anni e si era sposato a diciotto, abbandonò la moglie, perché teneva alla Rss più che a lei. Quel giovane era Narendra Modi.

Negli anni, intorno alla Rss è nata una rete di organizzazioni nazionaliste indù: dalle associazioni studentesche alle iniziative per tutelare le vacche sacre, dagli squadroni di picchiatori alle scuole private e ai corsi di preparazione all’esame di ammissione nell’esercito. E poi c’è il braccio politico: il Bharatiya janata party (Bjp, Partito del popolo indiano). Negli anni ottanta, quando ne aveva più o meno 35, Modi passò senza esitazione al Bjp.

L’ascesa di Modi

Oggi Narendra Modi è il primo ministro dell’India, governa il paese e il Bjp, primo partito con 395 deputati in parlamento: nemmeno uno è musulmano. I ministri dell’interno, della difesa e dell’istruzione, oltre ad altri esponenti del governo, provengono tutti dalle file della Rss o di uno dei gruppi affini. Chi passa per l’organizzazione, “che si chiami Godse o Modi”, subisce lo stesso tipo di indottrinamento, spiega Dhirendra Jha.

L’ascesa di Narendra Modi è cominciata sulla costa occidentale, nello stato federato del Gujarat, di cui è stato primo ministro per quasi quindici anni, a partire dal 2001. L’inizio del suo mandato è macchiato di sangue: il 27 febbraio 2002, in seguito a scontri con i musulmani, 59 persone, quasi tutti pellegrini indù, morirono nel rogo di un treno. L’avvenimento scatenò violenze in tutto lo stato: nel corso di un pogrom che durò più giorni, una folla di indù inferociti uccise circa duemila musulmani. Per le strade, i seguaci della Rss commisero omicidi e stupri e appiccarono incendi.

Il primo ministro del Gujarat restò in disparte. Prima chiamò in soccorso l’esercito nazionale, ma poi lasciò i soldati a lungo nei loro alloggi. In seguito, sono stati trovati indizi del fatto che il governo e alcune istituzioni del Gujarat appoggiarono le atrocità. Secondo inchieste indipendenti, i responsabili agirono sotto la guida di persone che in alcuni casi avevano a disposizione elenchi elettorali e altri documenti che consentirono di individuare case e negozi musulmani.

Lontano dalle telecamere le tracce di Gandhi sbiadiscono sempre più

Nei mesi successivi al pogrom, il primo ministro del Gujarat ricevette diverse critiche, in India, addirittura dal suo stesso partito, ma anche dall’estero. La Germania, il Regno Unito e gli Stati Uniti gli vietarono l’ingresso. Lui inizialmente offrì le dimissioni, poi passò al contrattacco indicendo elezioni anticipate nel Gujarat. In campagna elettorale puntò sul risentimento antimusulmano e si presentò come il paladino della maggioranza indù, promettendo di impedire ai mezzi d’informazione che avevano denunciato di continuare a infangare il buon nome del Gujarat.

Modi vinse le elezioni, cementando il suo potere e indicando al partito la linea da seguire: riuscì a dimostrare che con un nazionalismo populista indù e incitando all’odio contro le minoranze – proprio come aveva predicato Savarkar, l’ideologo anti-Gandhi – nell’India del ventunesimo secolo è ancora possibile raccogliere consensi.

Finora Modi non ha mai espresso cordoglio per le vittime del pogrom. Le inchieste giudiziarie contro di lui sono state archiviate e chi chiede di fare i conti con il passato riceve insulti e minacce. Gli informatori che hanno riferito dei legami di Modi con il pogrom sono finiti in prigione. Uno è morto in circostanze misteriose.

È un giorno di ottobre del 2023 e siamo ad Ahmedabad, la più grande città del Gujarat. Vicino a un fiume che scorre placido, non lontano dal Narendra Modi stadium – con i suoi 132mila posti, lo stadio di cric­ket più grande del mondo – sorge il famoso ashram Sabarmati. Nell’ampia tenuta, alberi di tamarindo mitigano la calura e attenuano i rumori provenienti dalla strada. Tra gli edifici bassi si trova una statua di bronzo del mahatma che negli anni venti visse proprio qui, nella città dov’è cominciata l’ascesa di Modi. Gandhi abitava nell’ashram con la moglie e da qui organizzava la resistenza nonviolenta degli indiani contro i coloni. Da qui partì per la sua marcia del sale.

Per gli indù, un ashram è più o meno come un convento per i cristiani. Per Gandhi vivere in un posto simile aveva un significato non solo spirituale, ma anche politico: l’ashram è una comunità senza lussi né gerarchie e senza distinzioni tra religioni. Cedric Prakash, un gesuita di 71 anni, attivista per i diritti civili, viene qui abitualmente. Con in spalla la sacca di tessuto grezzo che è il segno distintivo dei gandhiani, Prakash attraversa la tenuta raccontandoci delle violenze che vent’anni fa scossero la sua città. “Modi non fece nulla per fermare la folla inferocita, anzi: la incitava a uccidere. Fu un attacco frontale a tutto quello che Gandhi rappresenta”. In quei giorni Prakash girava per la città cercando d’identificare le vittime e consolare i sopravvissuti. Ha le lacrime agli occhi: anche lui ha perso delle persone care. Da allora la polarizzazione religiosa in città è in aumento e molti hanno paura. “Siamo più cauti. Questo è un regime rancoroso e vendicativo”. Anche Prakash è stato picchiato più volte.

Com’è messa l’India? Quanto è democratica la “più grande democrazia del mondo”, come la definiscono Narendra Modi e i politici occidentali che vorrebbero averla come alleata? Il primo ministro – si sente dire spesso da nostri interlocutori indiani – ha costruito un clima d’impunità: ha piazzato i suoi seguaci nei tribunali e nelle altre istituzioni dello stato, ha lasciato che il suo apparato di potere mettesse a tacere i giornalisti più critici, ha fatto sì che troll e influencer inondassero i social network di propaganda, tacendo certe cose, non condannando certe azioni, lasciando campo libero agli estremisti.

Giugno 2023: nel Maharashtra alcuni fanatici vicini alla Rss legano a un albero un musulmano accusato di aver trasportato carne bovina e lo ammazzano a calci e a colpi di spranghe. Da quando Modi è diventato premier nel 2014, il numero di omicidi compiuti nel nome delle vacche sacre è aumentato a dismisura. Secondo un sondaggio, in India un indù su tre non vorrebbe come vicino di casa nessuno dei duecento milioni di musulmani che abitano nel paese.

Luglio 2023: su un treno ad alta velocità diretto a Mumbai, un vigilante uccide diversi musulmani a colpi di arma da fuoco. Un video lo mostra accanto a una delle vittime mentre dice “se volete vivere in Industan, Modi è l’unico da votare”.

Agosto 2023: in una scuola elementare dell’Uttar Pradesh, un’insegnante spinge i suoi alunni a schiaffeggiare un compagno di classe che non sapeva le tabelline. “Bisogna picchiare gli studenti musulmani prima di mandarli a casa”, dice in un video.

Ottobre 2023: ad Ahmedabad alcuni attivisti vicini alla Rss picchiano un insegnante che aveva parlato ai suoi alunni delle festività di diverse religioni.

Nell’ashram lungo il fiume, oltre alla statua di Gandhi, sorge un piccolo museo dalle pareti spoglie e dall’arredamento spartano che espone i suoi effetti personali: il bastone da passeggio, le stoviglie, i famosi occhiali. Fuori, nella veranda, c’è una donna al filatoio: Gandhi adorava la tessitura a mano ed esortava gli indiani a fabbricarsi i vestiti da soli. Oggi ad attraversare quella che un tempo era la sua casa, troviamo gruppi di turisti e scolaresche. Ogni tanto arriva un altro tipo di visitatori, ospiti del primo ministro: Xi Jinping, Benjamin Netanyahu, Donald Trump, tutti hanno tessuto nell’ashram di Gandhi. Del resto, sono foto efficaci.

Narendra Modi non parla mai male di Gandhi in pubblico, anzi: periodicamente gli rende onore, spargendo fiori e inchinandosi davanti ai monumenti che lo celebrano, motivo per cui i suoi sostenitori accusano chi lo critica di falso allarmismo. Modi mostra rispetto per Gandhi, cos’altro volete? Ma c’è chi – come il gesuita Cedric Prakash e Tushar, il pronipote di Gandhi – crede che Modi sia un ipocrita e che, se solo potesse, si libererebbe volentieri di Gandhi. Su questo sono d’accordo anche i maggiori studiosi indiani del mahatma. Purtroppo, però, Gandhi è un’icona mondiale, ecco perché Modi ne usa la fama per brillare di luce riflessa sui mezzi d’informazione internazionali.

Lontano dalle telecamere, invece, le tracce di Gandhi sbiadiscono sempre più. L’anno scorso il governo ha deciso di bandire dalle celebrazioni per la festa della repubblica Abide with me, l’inno preferito del mahatma, recidendo l’ultimo legame tra la festa e il “padre della nazione”. Qualche mese più tardi, dai manuali delle scuole superiori è sparito ogni riferimento al fanatismo che portò all’omicidio di Gandhi.

Una deputata del Bjp non solo ha definito l’assassino Nathuram Godse “un patriota” durante una seduta del parlamento, ma è anche stata accusata di aver fatto parte di una cellula terrorista colpevole di attentati sanguinosi contro i musulmani. Nonostante questo, resta nel gruppo parlamentare.

Da quando Modi si è insediato, per l’anniversario della nascita di Gandhi, all’inizio di ottobre, il governo organizza grandiose campagne di pulizia, chiamando a raccolta la popolazione perché spazzi strade e piazze. Il logo della campagna è una foto di Narendra Modi con a fianco gli occhiali di Gandhi. Ecco il ruolo a cui sembra ormai ridotto il mahatma: un modello da seguire per la grandissima cura che metteva nell’igiene personale.

Qualche anno fa Modi ha inaugurato un museo high-tech dedicato a Gandhi vicino ad Ahmedabad, una sorta di contraltare al vecchio ashram. Il museo sorge in una zona commerciale, tra un centro congressi e un albergo. L’esposizione allinea gli episodi della vita di Gandhi senza contestualizzarli, accompagnandoli con musica ad alto volume e cortometraggi animati. Quanto al 30 gennaio 1948 ci si limita a dire che “un uomo” uccise Gandhi. Non una parola di più.

La partizione, una sconfitta

Finita la seconda guerra mondiale, l’India è a un passo dall’indipendenza. Gandhi ha raggiunto il suo obiettivo, eppure negli ultimi anni della sua vita teme che la gente non abbia capito davvero il suo messaggio. Tra indù e musulmani esplode l’odio: politici e agitatori di entrambe le parti, in lotta per assicurarsi maggior peso nel futuro stato-nazione, organizzano massacri. E allora Gandhi, ormai ultrasettantenne, si rimette in marcia, attraversando a piedi le regioni interessate, tenendo discorsi, tentando di placare gli animi. Sempre più spesso si trova davanti indù radicali, scettici e ostili.

I coloni britannici decidono di dividere il subcontinente, concedendo l’indipendenza non a uno ma a due stati: l’India e il Pakistan. Nell’agosto del 1947 il momento è arrivato. Ma Gandhi non si unisce ai festeggiamenti. Per lui questa vittoria è anche una sconfitta, perché ha sempre desiderato che indù e musulmani potessero sentirsi a casa nello stesso paese. Invece le cose vanno diversamente: gli indù abbandonano il Pakistan per andare in India, i musulmani lasciano l’India per andare in Pakistan. È il caos: colonne di profughi e massacri su massacri. Da concittadini a nemici, da vicini di casa a estranei.

Nell’autunno del 1947 a New Delhi la situazione è particolarmente grave. La città è piena di profughi indù provenienti dal Pakistan che si vendicano sui musulmani rimasti in città perché avevano voluto credere all’idea gandhiana di una democrazia secolare. Il mahatma, chiamato in soccorso dal governo, organizza incontri di preghiera, consola le vittime e digiuna pubblicamente, una sorta di sciopero della fame per fermare gli assassini.

Per la Rss è un periodo di grandi successi. Nathuram Godse, agitatore antigandhiano, scrive continuamente su un giornale indù nazionalista. Poi, nel gennaio del 1948, elabora un piano insieme a una manciata di suoi complici. Prima vanno a trovare il loro mentore, Savarkar. Una commissione d’inchiesta stabilirà poi che è proprio Savarkar a dargli il via libera per passare all’azione. Il gruppo sale su un treno diretto a New Delhi. Lì, in un freddo pomeriggio d’inverno, centinaia di persone stanno aspettando il mahatma Gandhi per la preghiera. Nathuram Godse attraversa la folla portandosi di fronte a quell’uomo anziano che ritiene di dover necessariamente eliminare per poter realizzare la visione di Savarkar: un paese riservato esclusivamente agli indù. Godse saluta Gandhi e poi gli spara tre pallottole nel petto. Due anni dopo, salendo sul patibolo, reciterà i primi due versi della preghiera della Rss, sorta di inno dei nazionalisti indù:

Davanti a te mi inchino eternamente, oh amata madrepatria! Oh madrepatria degli indù, tu mi hai cresciuto nella gioia. Oh sacro paese grande e benedetto, ch’io possa vivere la mia vita al tuo servizio. Davanti a te m’inchino, ancora e ancora”.

Anche oggi, durante le marce della Rss, s’intona questo inno.

Troppo tardi

“Noi gandhiani”, spiega Tushar, il pronipote di Gandhi, “non immaginavamo di poter essere emarginati. Quando ce ne siamo resi conto era ormai troppo tardi”. Eppure Tushar non intende rinunciare all’eredità del mahatma Gandhi senza opporre una resistenza nonviolenta. E infatti è presente sui social network (dove si sostiene spesso che Gandhi appoggiasse la divisione del subcontinente indiano e che odiasse gli indù), scrive editoriali, va in tv, sale sui palcoscenici e scende nelle piazze, proprio come ha fatto a Jalgaon per celebrare il compleanno di Gandhi.

Stasera Tushar Gandhi è ospite del National gandhian leadership camp, una sorta di scuola estiva dedicata agli studenti universitari e organizzata da una famiglia di imprenditori che venera il mahatma Gandhi. Nell’aula, dove i partecipanti hanno appena finito di vedere un documentario canadese sull’uccisione di Gandhi, si riaccendono le luci. Varie mani scattano verso l’alto e Tushar Gandhi dà la parola a uno studente. Il ragazzo gli chiede: perché Gandhi è stato cremato come un indù invece di essere sepolto? Tushar Gandhi esita, pensa di non aver capito bene la domanda. Poi chiede a sua volta: “E perché avrebbero dovuto seppellirlo?”. “Be’”, replica il ragazzo, “perché era musulmano, no?”.

“Quando Gandhi era vivo”, dice Ajinkya, il pronipote di Godse, “gli episodi di violenza contro gli indù sono stati tanti. E poi non c’era alcun bisogno di dividere il paese. Perché Gandhi non l’ha evitato? Cos’ha ottenuto la resistenza nonviolenta? Niente di niente!”.

Nella stanza che ha dedicato alla memoria dell’assassino, Ajinkya Godse si rallegra: grazie a questo governo il paese si è trasformato, andando proprio nella direzione desiderata dal suo prozio. “Fa molto per gli indù”, dice Ajinkya Godse riferendosi al primo ministro. Un tempo, per esempio, rendere pubblicamente onore a Savarkar sarebbe stato inimmaginabile.

Oggi invece ci sono strade, scuole e ponti che portano il nome del padre spirituale del moderno nazionalismo indù. Una volta Modi ha perfino visitato la cella delle Andamane dove Savarkar scontò la sua pena. Ci sono fotografie che lo mostrano in ginocchio per terra, le mani in preghiera e il capo chino di fronte all’effige dell’uomo che ebbe un forte ascendente sull’assassino di Gandhi.

Tushar Gandhi e Ajinkya Godse discendono entrambi da uomini famosi, ma non si sono mai incontrati. Probabilmente non avrebbero granché da dirsi. “Non m’importa di loro”, dichiara Tushar Gandhi a proposito dei Godse, “l’unica cosa che hanno è l’attenzione che ricevono”. E Ajinkya Godse, durante la nostra conversazione a Pune, non fa altro che perdersi nei ricordi del tempo che fu, parlando del gesto del prozio e del posto che gli spetta nella storia della nazione.

Ajinkya Godse vorrebbe spargere le ceneri dell’urna in un luogo che negli antichi testi religiosi dell’induismo assume un ruolo cruciale e ha dato il nome al subcontinente: il fiume Indo. Solo che, oggi, quasi tutto il corso dell’Indo si trova in Pakistan. Ajinkya Godse, però, è convinto che un giorno il Pakistan tornerà a far parte dell’India. “Ci vorranno due o tre generazioni, ma accadrà”. Intanto attende fiducioso il prossimo 30 gennaio: nell’anniversario del giorno in cui il suo prozio sparò a Gandhi, i visitatori della stanza commemorativa sono particolarmente numerosi. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1549 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati