Per rimanere sbalorditi di fronte alla varietà di scelta e alla convenienza dei negozi moderni, basta dare un’occhiata al reparto della senape di un supermercato degli Stati Uniti. Quello dove vado io ne vende più di venti tipi diversi: la classica senape gialla, ovviamente, ma anche “senape scura piccante”, “senape alla banana e al pepe”, “senape al miele senza zuccheri aggiunti” e “senape biologica senza sale”. Ci sono la “senape extra pungente” e la “senape originale di Digione senza solfiti, in tubetto”. Una varietà sconcertante resa possibile da una tecnologia straordinaria: il codice a barre. Questa striscia di linee bianche e nere è il linguaggio macchina dello universal product code (Upc, codice universale prodotto, usato nei paesi anglosassoni), grazie al quale uno scanner riesce a capire esattamente di che prodotto si tratta e a calcolarne il prezzo in ogni singolo negozio. Il codice a barre è ciò che permette al cassiere di scansionare rapidamente la vostra spesa, infilarla in una busta e consegnarvi lo scontrino (e alle casse automatiche di far fare tutto il lavoro a voi). Dato che aiuta a tracciare e gestire le scorte in modo straordinariamente efficiente, è anche il motivo per cui oggi nei supermercati abbiamo l’imbarazzo della scelta. Quando fu introdotto, nel 1974, i supermercati avevano in magazzino una media di novemila prodotti. Oggi ne hanno più di trentamila.

In questi cinquant’anni il codice a barre è diventato l’impianto idraulico del capitalismo globale: rivoluzionario, onnipresente, invisibile. Dagli anni settanta in poi sono stati inventati altri tipi di codici scansionabili, ma l’Upc formato da linee è quello stampato sulla confezione di quasi tutti i prodotti di consumo che compriamo nei negozi. È una delle invenzioni più incredibili e importanti della storia statunitense. Come siamo arrivati ai supermercati grandi come stadi di calcio, ai Costco e ad Amazon? “Tutto comincia con il codice a barre”, dice Timothy Simcoe, economista della Boston university ed esperto di questo linguaggio. I codici a barre sono sui libri, sui televisori, sulle bottiglie di vino, sulle spatole, sulla biancheria intima. Esistono tatuaggi a forma di codice a barre, teorie del complotto sui codici a barre, scandali presidenziali incentrati sul codice a barre e palazzi progettati per somigliare a codici a barre, in tutti i continenti.

In questi cinquant’anni è rimasto praticamente immutato. Se osserviamo il primo codice a barre della storia, stampato su un pacchetto di gomme da masticare Wrigley da 67 centesimi, non sembra datato, perché non lo è. Gli scanner sono diventati sempre più economici ed efficienti, ma il codice a barre è rimasto lo stesso. Almeno finora. Dopo tanti anni la sua capacità di costruire un paese che affolla negozi e magazzini con carrelli stracolmi potrebbe essere la causa della sua stessa fine.

Se il suono dell’era del codice a barre è il bip, quello dell’era precedente era il clic. In passato ogni prodotto aveva bisogno di un’etichetta con il suo prezzo, che era composta e appiccicata con una prezzatrice. “A quei tempi sembravamo dei pistoleri del far west. Portavamo la prezzatrice infilata nella cintura come fosse una pistola”, racconta Norman Mayne, dal 1967 amministratore delegato della catena di alimentari Dorothy Lane Market, nell’Ohio. Senza un codice da scansionare, le ferramenta erano costrette a registrare manualmente ogni singola chiave inglese, ogni latta di vernice e ogni metro a nastro che entrava e usciva dalla porta. Le librerie non sempre si rendevano conto di quali titoli stessero vendendo e quali no. Nei supermercati si formavano regolarmente ingorghi alla cassa. Le commesse capaci di digitare rapidamente i prezzi erano così preziose che nel 1964 la vincitrice del premio internazionale per la cassiera dell’anno fu premiata con un viaggio alle Hawaii e una stola di visone.

Zuppa di pollo

All’inizio degli anni settanta i dirigenti dei supermercati si riunirono in un comitato per trovare insieme una soluzione. Innanzitutto idearono un codice universale prodotto di dodici cifre: una specie di numero telefonico che non era collegato alle persone, ma alle lattine della zuppa di pollo. Quindi affidarono a una serie di aziende il compito di capire come farlo leggere alle macchine. Il codice a barre doveva essere praticamente infallibile, per evitare che il sensore scambiasse un articolo per un altro. Doveva essere semplice, in modo che anche un cassiere inesperto riuscisse a passarlo velocemente sul lettore a qualsiasi angolazione. Doveva essere minuscolo, per poterlo applicare anche sui prodotti più piccoli. E doveva poter essere stampato in modo facile ed economico, per applicarlo a ogni singolo articolo senza spendere una fortuna.

Se le cose fossero andate in modo leggermente diverso, oggi avremmo dei codici a barre “a sole” sui deodoranti per le ascelle e le scatole dei cereali, o magari quelli rotondi della Rca, che erano stati già testati in un supermercato della catena Kroger a Kenwood, nell’Ohio. “Per poco non siamo finiti con il codice a barre ‘a bersaglio’ della Rca”, racconta Jordan
Frith, professore dell’università di Clemson. “Fu una decisione presa all’ultimo”. Nel 1973 i membri del comitato andarono a vedere Gola profonda in un cinema per adulti (non è uno scherzo) e conclusero: il codice a barre rettangolare a strisce
dell’Ibm. Un unico simbolo per tutti.

Il codice a barre è apparentemente semplice per una scelta precisa. In un codice Upc le strisce bianche e nere di diverso spessore rappresentano i numeri. Se si spara il laser sul codice a barre, la luce viene riflessa dalle linee bianche ma non da quelle nere, trasformandosi in una sequenza di 0 e 1 su un computer. In quel bip istantaneo, la macchina capisce che il primo blocco di quelle dodici cifre è il codice del produttore, mentre il secondo identifica il prodotto: senape di Digione senza solfiti, non senape di Digione semplice o senape di Digione al miele. Fin dall’inizio il design del codice è stato praticamente perfetto. “Gli errori erano pochissimi”, dice Paul McEnroe, ingegnere del team di progettisti che elaborò il codice a barre dell’Ibm. Al laboratorio Ibm nel North Carolina, racconta McEnroe, uno dei vicepresidenti dell’azienda prese un pacchetto di sigarette con il codice a barre “e lo lanciò verso il punto cassa. Il pacchetto rimbalzò sul banco e si posò sulla finestra dello scanner, girando su sé stesso. E quel dannato aggeggio riuscì a leggerlo”.

Inizialmente l’uso del codice a barre doveva essere confinato all’industria alimentare, e anche lì faticò a imporsi. I sindacati, temendo che la sua diffusione avrebbe messo a rischio migliaia di posti di lavoro, gli fecero la guerra per decenni. Anche molti di quelli che avevano contribuito a svilupparlo erano convinti che lo avrebbero adottato non più di diecimila aziende. Alla fine, ha prevalso la convenienza. Oggi si scansionano più di diecimila codici a barre Upc al secondo. “Il codice a barre è la stele di Rosetta del ventesimo secolo”, dice Mark Cohen, professore di economia aziendale della Columbia business school. “Tra migliaia di anni un archeologo ne parlerà come del primo passo verso la digitalizzazione dell’informazione”.

Il codice a barre ha scatenato un’esplosione cambriana dei prodotti da scaffale negli Stati Uniti, favorendo la nascita dei megastore e delle filiere ultraveloci. A questa tecnologia si devono le meraviglie dello shopping moderno, ma anche i suoi eccessi peggiori: consumismo cieco, accumulo di cianfrusaglie inutili, strapotere delle multinazionali. Le aziende più grandi sono state le prime a investire sui lettori più costosi, diventando sempre più efficienti e realizzando profitti impossibili per i negozi a conduzione familiare.

Dal codice a barre originario sono nati molti altri codici, tra cui i parenti stretti, con più linee a rappresentare più numeri e lettere

Dal codice a barre originario sono nati molti altri codici, tra cui i parenti stretti, con più linee a rappresentare più numeri e lettere, e lontani cugini che non gli somigliano affatto. Ogni settore usa un suo codice, e a volte anche le singole aziende. La posta statunitense, la FedEx e la Ups usano tutte codici diversi per tracciare gli spostamenti di un prodotto fino alla porta di casa del destinatario. Negli ultimi anni è salito alla ribalta un particolare discendente del codice a barre: il codice qr. Ed è qui che cominciano i problemi.

All’inizio erano considerati un mezzo fiasco, mentre oggi i codici qr sono nei menù dei ristoranti, sui manuali degli elettrodomestici, sulle pubblicità in tv e su tante altre cose. Le chiazze bianche e nere sono un collegamento a internet: basta inquadrarle con lo smartphone e compare una pagina web. Ma, a seconda di come è impostato, il qr è in grado di funzionare anche come un codice a barre tradizionale, ed essere scansionato con un bip alla cassa. La differenza è che può contenere molte più informazioni: un codice a barre tradizionale identifica un prodotto e il prezzo; un codice qr, se usato come un codice a barre, è in grado di individuare la scadenza di un articolo, quando e dove è stato confezionato e tutta una serie di altri dati.

I suoi vantaggi sono evidenti per qualsiasi marchio che produce beni di consumo e per qualsiasi negozio che li vende. Se nel banco frigo ci sono due cartoni di latte in scadenza, un supermercato può usare il codice qr per tagliare automaticamente il loro prezzo e liberarsene prima. Se c’è un focolaio di listeria è più facile contenerlo identificando i singoli barattoli di gelato infetti. Un negozio può sapere istantaneamente se i tubetti di dentifricio sbiancante sull’espositore speciale vicino all’entrata vendono di più degli stessi tubetti esposti nello scaffale in corsia.

E poi pensiamo a noi consumatori. Inquadrando il codice qr con il telefono possiamo “sbloccare l’esperienza che il produttore vuole farci vivere”, dice Carrie Wilkie, responsabile degli standard e della tecnologia della Gs1 Us, un’organizzazione non profit che è un po’ come il governo dei codici a barre. Se scarichiamo l’app del nostro negozio di alimentari e scriviamo che siamo allergici alle arachidi, ogni volta che scansioniamo un prodotto con tracce di arachidi ci appare una notifica. Se scansioniamo un paio di jeans e decidiamo che non valgono duecento dollari, ci arriva un’email per avvertirci quando saranno scontati. Punti fedeltà, coupon, etichette dei vestiti, certificati di garanzia, ricette, valori nutrizionali, perfino giochi interattivi: è tutto scritto sul codice qr.

Levi Brown, Trunk archive

Il codice a barre originale sta per essere reso obsoleto dal mondo che ha contribuito a creare. “Ci siamo un po’ adagiati su quello che il codice a barre lineare può fare, senza preoccuparci di ciò che non può fare”, dice Wilkie. Oggi chiunque può creare un codice qr in pochi clic, ma solo la Gs1 produce e monitora i codici qr che funzionano come codici a barre. Il codice a barre non sarà formalmente ritirato, ma sembra destinato a sparire dai cartellini dei prezzi e dalle confezioni dei prodotti per essere rimpiazzato dal codice qr. Dopo mezzo secolo, il suo regno sta per finire.

Pubblicità mirata

Se il vecchio codice a barre ha creato lo shopping moderno, il nuovo introdurrà la prossima era, con le insidie legate alla raccolta dei dati e alla pubblicità mirata. I rivenditori al dettaglio “sono entusiasti delle informazioni che si possono ricavare da un codice a barre più avanzato”, dice Phil Lempert, analista del settore del commercio al dettaglio. Aziende come la catena di supermercati Kroger riescono già a vedere quali articoli una persona compra sul suo sito e condividono i dati per generare annunci pubblicitari che poi vengono mostrati a quella persona su Roku, una piattaforma di streaming. Con il codice qr gli articoli che scansioniamo in negozio con il telefono possono diventare oro per gli annunci mirati.

Per il momento, però, buona parte del potenziale del codice qr è ancora soprattutto questo: potenziale. È vero, i codici sono già stampati su alcuni prodotti, ma quasi nessuno è un codice a barre vero e proprio. Nel settembre 2023 sono entrato nel negozio della Puma a Manhattan. La Puma è la prima azienda negli Stati Uniti passata completamente al codice qr. Al secondo piano, dopo la parete dedicata alle scarpe da basket, ho trovato una maglietta dei Puffi che costava quaranta dollari: sul cartellino c’erano sia il codice a barre Upc sia un codice qr con scritto “scansionami”. Ho inquadrato il codice qr, ho cliccato su un riquadro per confermare che mi trovavo in negozio e sul telefono mi è apparsa la pagina della maglietta dei Puffi sul sito della Puma. Semplicemente questo. Forse, se avessi voluto delle scarpe di una misura non disponibile in magazzino avrei risparmiato qualche secondo, ma niente della mia esperienza in negozio mi ha fatto pensare al futuro.

Probabilmente è solo una questione di tempo. Melissa Garbayo, portavoce della Puma, mi ha spiegato che i codici qr permettono già oggi una gestione molto migliore del magazzino, collegandosi a una serie di chip che tracciano la posizione esatta di ogni articolo nel negozio. Qualche altro marchio sta provando a usare il codice qr come codice a barre, ma i nuovi codici, nella maggior parte dei casi, sono semplici link. Se inquadrate una lattina di Starry, una bevanda gassata al limone e lime della Pepsi (ma non altri prodotti del marchio), si apre una pagina web con una serie di informazioni sui valori nutrizionali e gli allergeni. Forse ci vorrà almeno un altro anno prima che la maggioranza dei rivenditori al dettaglio passi totalmente al codice qr, dice Wilkie. I grandi marchi sono già in prima fila.

Quest’estate, quando il codice a barre compirà cinquant’anni, non ci sarà un giorno di festa nazionale. Nessuno ha mai dedicato una statua a George Laurer, lo zar del codice a barre della Ibm; nessuno ad Halloween si traveste da Joseph
Woodland e Bernard Silver, che hanno brevettato il primo codice a barre; non esiste una fondazione intitolata ad Alan Haberman, che istituì la commissione dei dirigenti dell’industria alimentare. Forse, però, l’umile codice a barre e i suoi creatori meriterebbero queste onorificenze. Durante la fase di progettazione, la Ibm e le altre aziende che si contendevano la paternità del codice a barre negli Stati Uniti accettarono di rinunciare ai profitti e di rendere il simbolo vincente di dominio pubblico, “il più grande esempio di cooperazione industriale avvenuta senza la supervisione dello stato”, dice Frith.

A differenza del suo predecessore, il codice qr difficilmente sarà scolpito sul monte Rushmore delle invenzioni. Probabilmente non durerà cinquant’anni, e forse neanche dieci. Ci sono nuove tecnologie molto più avanzate del codice qr. In undici centri di distribuzione Amazon, mi ha detto un portavoce dell’azienda, uno strumento d’intelligenza artificiale chiamato “identificazione multimodale” è già in grado di “scansionare” gli articoli in base alla forma e al testo sugli imballaggi, senza bisogno di un codice a barre. Il vecchio codice a barre, però, ha ancora qualcosa che né il codice qr né la Silicon valley possono battere. È così universalmente semplice e così semplicemente universale che potrebbe rifiutarsi di sparire del tutto. Due anni dopo la prima scansione, il settimanale Businessweek aveva definito il codice a barre un flop; negli anni novanta, quando fu inventato il codice qr, molti dissero che presto avrebbe mandato in pensione il codice a barre, racconta Frith.

Anche in un futuro dominato dal qr, il codice a barre potrebbe restare su certi articoli: nel 2030, nel 2040 e probabilmente per il resto della nostra vita. Un codice a barre che diventa un po’ più invisibile nella vita quotidiana magari potrebbe essere più visibile quando è effettivamente presente su un prodotto. E forse avere finalmente il riconoscimento che merita. ◆ fas

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Questo articolo è uscito sul numero 1549 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati